L’amore è un albero e mette radici
La mia passione per Gino Paoli è dura da spiegare ai miei amici. Un po’ più dura da spiegare di quella per Sergio Endrigo, ma sicuramente meno di quella per il cedro candito.
Di solito, quando una vecchia gloria pubblica l’album dei migliori successi della propria carriera, c’è di che storcere il naso: ma a me sembra che la versione del “Cielo in una stanza” nell’album “Appunti di un lungo viaggio“ sia la più bella di sempre. Più dell’originale, più di Battiato, persino più di Mina. Tutto l’album, in realtà, mi piace tantissimo ed è per questo motivo che non mi fanno scrivere per la sezione Sound.
La prima volta che ho associato l’amore agli alberi è stato quindi a causa di Gino Paoli: distesa sull’erba accanto alle bici, abbandonata come quando si fa il morto sulla superficie del mare, ho fissato il cielo sopra di me e ho pensato che fosse il soffitto della mia stanza, e poi ho pensato che il soffitto della mia stanza sembrasse il cielo, incorniciato dalle fronde dei platani che ci spolveravano le ciglia, mosse da una brezza leggera. Cominciava giugno.
«Quando sei qui con me, questa stanza non ha più pareti ma alberi, alberi infiniti…». Pensavo a queste cose solennemente, quando ho sentito le sue nocche sfiorare le mie nocche e allora mi sono convinta che “Il cielo in una stanza” sia la canzone più bella del mondo. Lode a te per sempre, caro Gino.
«Mi sento come un melo che prima cresceva con tutti i suoi rami in su e da tutte le parti, e che adesso la vita ha potato, svettato, ha legato e puntellato, affinché metta le proprie radici e cresca dritto» Lev Tolstoj
Nonostante sia figlia di una guardia forestale, ci ho messo parecchio a memorizzare i nomi degli alberi più comuni e a saperli distinguere fra di loro: pini, larici, betulle, castagni. Mio padre direbbe che non è sicuro che io sappia distinguere una quercia da un rametto di pungitopo.
«Da qualche anno sento crescere in me un amore potente per gli alberi, anche se non saprei dire quale sia il mio albero preferito perché ognuno risplende di una bellezza tutta sua: è più bello l’ulivo o la quercia, il cipresso o il faggio, l’olmo o l’ippocastano, la betulla o il pino, l’alloro o l’acacia, il noce o il sambuco?» scrive Vito Mancuso in “La via della bellezza“. Ogni albero ha in effetti un carattere, una voce, una forma, un nome propri: sono diversi tanto quanto sono diverse le persone che incrociamo al semaforo, al supermercato.
Ad esempio, l’albero che durante i temporali sbatteva i rami contro le finestre smerigliate e da dietro i vetri sembrava uno stregone col cappello a punta era un pino; quello su cui mi arrampicavo da bambina, un ciliegio; quelle del giardino della scuola erano invece giovani betulle; e quelli sulla strada del mare, naturalmente ulivi.
Ma che cosa c’entra l’amore con gli alberi?
Dal desiderarti al pensarti mia
sei rimasta tu, mentre entri e ti siedi.
La luce ti viene alle spalle dalla porta socchiusa,
il pruno lascia il suo bianco al mattino.
Così intonati, il bianco e il pruno
fermi nel sole, noi.
In questa maniera gli alberi parlano al cielo
l’ombra degli alberi cresce lungo le iridi
verde più cielo
in questo modo di stare, precipitati.
(Pierluigi Cappello, “Appunto”, da “Azzurro elementare”, ed. BUR Rizzoli)
Per un certo periodo il mio amore per gli alberi è stato boicottato da Gilles Deleuze e Félix Guattari e dal loro concetto di “rizoma”.
«Il rizoma (da rizo-, radice, con il suffisso -oma, rigonfiamento) è una modificazione del fusto con principale funzione di riserva. È ingrossato, sotterraneo con decorso generalmente orizzontale» (Wikipedia)
Il rizoma è stato utilizzato da Deleuze e Guattari per descrivere «un tipo di ricerca filosofica che procede per multipli, in tutte le direzioni e senza gerarchie interne. […] Esso si contrappone alla concezione arborescente del pensiero, tipica della filosofia occidentale, la quale procede invece gerarchicamente e linearmente, seguendo rigide categorie binarie ovvero dualistiche» (cito da questo articolo di Edoardo Acotto per Doppiozero). Il rizoma è un anti-albero, un’anti-radice, un’anti-struttura.
«Se l’albero impone il verbo essere, ossia la metafisica alla base delle categorie di pensiero occidentale, il rizoma ha per tessuto connettivo la congiunzione molteplice: “e… e… e…”». È un bel modo di pensare. Ma poi mi è tornata la fissazione per gli alberi.
Sì, ma che cosa c’entra l’amore con gli alberi?
Ma i miei alberi immobili,
l’argento di luce delle foglie
e il desiderio, lasciato ai roveti
di rosa canina – dimmi,
è verticale quest’ora perfetta,
e dove posa? E tu, tu dove sei,
che dormi nella stanza
dentro la muta ombra dei muri?
Immemore del tempo, io qui
mescolo dentro e fuori, mi confondo.
Resto incantata sulla soglia, imparo
a respirare senza muovere fronda.
(Cristina Alziati, da “Come non piangenti”, ed. Marcos y Marcos)
Da un documentario della BBC ho imparato che gli alberi comunicano fra di loro — a quanto pare si scambiano messaggi e risorse (e qualche volta si hackerano pure) — attraverso un “network of fungi”, una rete di funghi, di fili fungini, che si sviluppa attorno e dentro le loro radici. È ciò che gli studiosi chiamano “Wood Wide Web”.
Le radici sono il loro centro di comando ed è attraverso di esse che gli alberi, come tutte le piante, producono veri e propri segnali elettrici attraverso cui si sviluppa una comunicazione diffusa, e perciò una comunità.
Direi che non dobbiamo necessariamente scegliere fra albero e rizoma: possiamo tenerli entrambi.
Sapere di questa rete di comunicazione sotterranea fra gli alberi mi ha fatto pensare all’amore.
Sia all’amore per gli altri, perché se creature tanto apparentemente solitarie come gli alberi comunicano fra di loro e “intrecciano” le radici quasi a fare una famiglia, allora possiamo essere anche noi, i solitari e sociali insieme, una comunità: sembrare in superficie tante biglie sciolte ed essere invece, dentro la terra, radicalmente uniti.
Sia all’amore che ciascuno di noi intende quando pronuncia la parola amore: al di là del potere di cui esso ci infonde, quello di dire senza dire, di dire più di quanto vorremmo e più di quanto appaia in superficie, di essere felici quando lui o lei è felice e di essere tristi quando è triste, di nutrire l’altro con la nostra felicità e contagiarlo con la nostra tristezza, esiste un altro fenomeno, al quale mi ha fatto pensare Samuel, il giardiniere della “Antologia di Spoon River“.
Spesso ciò che ci tiene in vita sono i nostri sogni, le proiezioni con cui arrediamo anzitempo il futuro, le nostre aspirazioni e la nostra fame: i rami che tendono al cielo.
Non escluderei, però, che ciò che siamo realmente si riveli stare sotto i nostri piedi, più che un metro al di sopra della nostra testa: si riveli essere ciò che abbiamo costruito stabilmente, comunicato, dato. Forse siamo radici, più che rami.
E allora che cosa c’entra l’amore con gli alberi? Forse c’entra questo: più amiamo, in tutte le forme che possiamo immaginare, e più ci radichiamo.
Io che accudivo la serra,
amante degli alberi e dei fiori,
spesso in vita vidi quest’olmo ombroso,
misurandone con l’occhio i rami generosi,
e ascoltai le sue foglie gioiose
teneramente carezzarsi
con dolci sussurri eolî.
E bene lo potevano:
perché le radici si erano fatte così larghe e profonde
che il suolo del colle, arricchito di piogge
e scaldato dal sole,
non poteva negar nulla di sé;
ma cedeva i suoi succhi alle radici industriose,
attraverso le quali eran succhiati e aggirati nel tronco,
e di là ai rami e nelle foglie,
donde la brezza traeva vita e cantava.
Adesso anch’io, sepolto nella terra, vedo chiaro
che i rami di un albero
non sono più ampi delle radici.
E come potrà l’anima di un uomo
essere più ampia della vita ch’egli ha vissuto?
(Edgar Lee Masters, da “Antologia di Spoon River“, trad. Fernanda Pivano, ed. Einaudi)