L’abbraccio di Egon Schiele
TAR, cap. V - Del rock e di Egon.
Titolo: Gli amanti (L’abbraccio)
Artista: Egon Schiele
TAR: olio su tela, 100×170 cm
Anno: 1917
Collezione: Österreichische Galerie, Vienna
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Schiele poi lo conoscono tutti. Un po’ perché è giusto così, un po’ perché ha avuto un reboot di fama nell’immaginario di una generazione diciamo indie-rock’n’roll di un amore sofferto, fisico, passionale e rimane comunque un artista controverso e leggermente più di nicchia rispetto al suo amico e mentore da confezioni di cioccolatini, Klimt (che poverino, poco ci azzecca col romanticismo becero da merchandising di San Valentino, sicuro non si aspettava che l’uso di tutto quell’oro l’avrebbe portato fin lì, ma questa è un’altra storia). Dicevamo, Egon Schiele, Vienna, inizio del secolo scorso.
E iniziamo subito a premettere che ci si sforzerà di evitare l’aggettivazione “erotico” per parlare del suo lavoro, che pare l’unico attributo da appioppargli per inquadrarlo e archiviarlo velocemente, insieme con “tormentato”. Serenissimo non doveva essere il caro Egon, ma diciamocelo, tutto sommato non è che se la sia passata così male. Certo, perse il padre a 15 anni, ma di contro lo zio suo tutore lo iscrisse all’Accademia di Belle Arti di Vienna, dove fu il più giovane studente ed ebbe modo di conoscere Gustav Klimt, che se lo prese sotto l’ala. A 19 anni poté vantare la sua prima personale, che lo conclamò uno degli artisti più interessanti dell’epoca, lasciò l’Accademia e fondò il Neuekunstgruppe, affermandosi come araldo dell’Espressionismo viennese.
Certo, fu incarcerato con l’accusa di abuso di minore quando, dopo essersi trasferito fuori dalla capitale austriaca con la sua amante e musa Wally, la loro casa fu frequentata da giovani pre-adolescenti senza famiglia che l’artista impiegò come modelle; se la cavò con 24 giorni e la sola accusa di riproduzione pornografica – famosa in questo caso la sua dichiarazione sull’arte che mai può essere una porcheria, semmai è chi guarda a essere un porco. Certo, dovette partire per il fonte, la guerra non guarda in faccia a nessuno, tranne che per menzione meritevole si scampò la prima linea e poté continuare a esercitare la sua arte. Certo, una volta tornato sua moglie incinta morì di febbre spagnola, seguita dal marito tre giorni dopo. Certo, c’è da dire che morì a 28 anni.
Probabilmente questa morte tragica e prematura contribuì a consacrarne l’allure da rockstar malinconica e maledetta. Artista prodigio e fecondissimo (si contano circa trecentoquaranta dipinti e duemilaottocento tra acquerelli e disegni) nonostante la notorietà sembrò vivere sempre a margine di quei salotti viennesi che pure lo portavano sul piedistallo.
Gli stava stretta la società, forse gli stavano stretti proprio i vestiti, a giudicare solo guardando i corpi dipinti, così presenti, così sempre spogliati e a loro agio nella loro nudità, non sembrano potersi contenere nelle restrizioni di un abito. Nodosi e fieri come tronchi d’alberi. (Mentre li guardo, nelle eleganti sale dell’Albertina a Vienna, non riesco a non pensare a Iggy Pop e i primi Stooges.)
Non c’è vergogna, non c’è pudore negli autoritratti o ritratti di donna che lo hanno reso celebre, solo l’evidenza della pelle, delle superfici, rese con delle pennellate che sembrano voler tirare fuori, scavare via, quei corpi dalla tela piuttosto che appoggiarceli sopra.
Ma allora cosa c’è di così disturbante, così angosciante, in queste immagini. La sincerità con cui quegli occhi ci guardano, offrendoci la loro nudità carnale, la violenza con cui quelle mani si intrecciano, le membra si aggrappano l’una all’altra, tutt’oggi riescono a scuoterci dal nostro roseo piccolo mondo di tabù, in cui la masturbazione è ancora scioccante e la bellezza è un filtro su Instagram.
Non siamo forse così lontani da quei signorotti benpensanti che sbolognarono l’arte di Schiele come pornografica. Solo perché vera, sincera. Sa di vita, l’arte di Egon Schiele.
Osò rappresentarlo senza filtri, questo arbitrario miscuglio di carne, anime e ossa, seppe vedere le cose del mondo che vogliamo dimenticarci, mentre selezioniamo solo quelle più carine. Ce le sbatte in faccia nella loro crudezza, nella loro asciuttezza, mentre siamo assopiti a bearci di patinate immagini, preconfezionate e perfettine, della pubblicità &co.
La vita non è bellina. Non è educata. La vita è sangue, sudore, saliva, unghie; sembra di vederla scorrere tutta dentro quello che è stato titolato come L’abbraccio, anche lì quasi a volerlo ripulire, censurare con un nome al dolcificante che lo renda un po’ più armonioso di quello che è, due pezzi di carne che si avvinghiano mentre fuori martella la guerra. Eppure non riesco a vederci disperazione, o rassegnazione, nella pittura di Schiele, semmai desiderio, fame (Sono innamorato di tutto – si legge in uno dei suoi diari). Una gloriosa caducità, un’eroica resistenza di corpi.
“Bodies have their own light which they consume to live: they burn, they are not lit from the outside.” Scrisse Egon.
It’s better to burn out than to fade away – mi risuona nelle orecchie il rock di Neil Young, poi citato nella sua ultima lettera dal buon Kurt (sì, Cobain).