La voce solitaria dell’uomo, come “ritornare ad essere felici”
“[…] non deve avere paura se una tristezza si innalza davanti a Lei, grande come non ne ha mai viste prima; se un’inquietudine, come luci e ombre di nubi, va sulle Sue mani e su ogni Sua azione. Deve pensare che accade qualcosa in Lei, che la vita non L’ha dimenticata, che La tiene nella sua mano: non La lascerà cadere. Perché vuole escludere una preoccupazione, un male, una melancolia dalla sua vita, quando ancora non sa in che modo queste condizioni lavorano in Lei? Perché vuole continuare a chiedersi da dove viene tutto questo e dove porterà? Ma Lei sa bene di trovarsi in un momento di passaggio, e non desidera altro che trasformarsi. Se qualcosa dei Suoi processi è ammalato, consideri che la malattia è il mezzo con cui un organismo si libera di ciò che è estraneo; allora lo si deve solo aiutare a rimanere malato, a possedere tutta la sua malattia e a erompere, perché questo è il suo progresso.| Borgeby gård, Flädie, Svezia, 12 agosto 1904, Rainer Maria Rilke, Lettere a un giovane poeta.
–PREMESSA– A volte, quando sento quella malinconia vaga e senza nome, mi viene naturale trovare rifugio tra le pellicole di Aleksandr Sokurov. Le sue luci tremolanti, le trame spettrali, l’audio crepitante e i dialoghi sussurrati suggeriscono che tutto e tutti potrebbero scomparire da un momento all’altro. Sokurov, più di ogni altro regista, sembra comprendere il difficile dialogo tra gli uomini e il mondo: la sua macchina da presa grazie a giochi d’ombra e la saturazione dei colori, riesce sempre a catturare gli angoli più evocativi, esprimere la soggettività più segreta, nella quale persino un suono lontano assume le sembianze di un pensiero inespresso.
– “Non si ricorda di me?”, chiese Ljuba.
– “No, non l’ho dimenticata”, rispose Nikita.
– “Non bisogna mai dimenticare”, sorrise Ljuba.
I suoi occhi puri, colmi di una luce misteriosa, guardavano teneramente Nikita, quasi con ammirazione. Anche Nikita guardava il volto di lei e il cuore gioiva e soffriva alla sola vista di quegli occhi, profondamente incavati dalla miseria del vivere e illuminati da una fiduciosa speranza. | Il fiume Potudan’, Andrej Platonov.
Nel 1978, il film d’esordio di Alexandr Sokurov, La voce solitaria dell’uomo – nonché lavoro finale per il diploma al VGIK di Mosca – illustra benissimo il suo talento nel saper assemblare un insieme convincente nonostante le condizioni più precarie, rimanendo sorprendentemente espressivo, intimo e delicato senza effetti speciali o attori professionisti.
Purtroppo, il film non fu ben accolto dalle autorità universitarie presenti all’epoca, i quali lo accusarono di vaghezza ideologica. L’unica personache lo difese fu Andrej Tarkovskij e grazie al suo sostegno, solo nel 1987 il film fu finalmente mostrato ad un pubblico più ampio.
La voce solitaria dell’uomo, inizialmente pensato per essere un documentario su Andrej Platonov, è basato su i testi dell’autore russo, in particolare su Il fiume Potudan’ e L’origine di un maestro artigiano.
“La mia salvezza è nella trasformazione del mio amore per te in una religione… Io non esigo più niente da te adesso. Nel fare un dio della propria amata c’è il significato più alto e più solido dell’amore.” | Lettera di Platonov alla moglie, Istorija russkoj literatury XX veka (20–90 gody). Osnovnye imena, a cura di S.I. Kormilov, Moskva 1998.
Il film racconta la storia di due giovani, Nikita e Ljuba, che cercano di essere felici nell’immediato dopoguerra ma si scontrano con l’impossibilità di rendere di nuovo attuale il passato.
Le lunghe riprese di zone rurali e case polverose, la luce del sole del tardo pomeriggio attraverso le finestre, gli alberi che frusciano nella brezza: tutto ci racconta i sentimenti di Nikita, un veterano della guerra civile che torna a una vita di tranquillità che non riesce più vivere.
Anche quando i due decidono di sposarsi, la loro unione rimane dolorosamente al di là delle capacità emotive del protagonista. Le immagini evocano meglio delle parole il dolore, la perdita e la solitudine senza per questo abbandonare mai la speranza, rivelando le emozioni profonde che spesso rimangono nascoste sotto la calma superficie dei volti dei personaggi. In tutto il film è presente “qualcosa oltre”, oltre i volti, oltre le parole, oltre le immagini stesse.
Emblematica la scena dove si vedono le foto nel vecchio album, il riflesso di Nikita visibile nello specchio, suggerisce che tutta la storia non si svolga in uno spazio reale, ma in uno spazio metafisico: l’anima del protagonista. Nikita “chiuso nella cornice dello specchio” evoca le superstizioni associate alla morte, nelle quali si credeva che gli specchi fossero in grado di imprigionare l’anima del defunto nell’immagine riflessa. Nikita quindi è come il riflesso della morte nella vita stessa.
Secondo lo stesso Alexandr Sokurov, l’arte consiste proprio nello scoprire un archetipo attraverso la “rimozione del telo”. Come un pittore di icone, “non crea un’immagine, ma rimuove solo i teli dall’immagine esistente (…) rivelando la traccia della realtà spirituale” così il regista mostra la verità della storia nello specchio della telecamera: costruendo l’intimità interiore attraverso l’uso di immagini fumose, sfocate e dai colori usurati perché “l’elegante abbellimento deve essere disturbato per la distruzione della visione” al fine di rivelare che c’è altro oltre a quello che possiamo solamente vedere.
Il potere della vita e il mistero della morte, la continua lotta per la conquista di valori spirituali sono i segni distintivi dei film di Alexandr Sokurov, che proprio come un pittore di icone aiuta noi spettatori a guardare nel limbo, al confine degli opposti, in profondità, lì dove è possibile guardare oltre e “ritornare ad essere felici” dopo ogni guerra, ogni dolore e ogni morte.
Titolo originale | Одинокий голос человека
Regia | Alexandr Sokurov
Anno | 1987
Durata | 87 min