La Sporca Dozzinalità de I Magnifici Sette

La Sporca Dozzinalità de I Magnifici Sette

Rosso, giallo e più/rosa, nero e blu/i colori Power Rangers!

Hollywood ultimamente produce film che portano a ragionare sulla ragione stessa del film e non sempre è un bene. Sono andato a vedere I Magnifici Sette di Antoine Fuqua con vivo interesse quasi filologico, dal momento che in teoria è una vetta del finto postmodernismo hollywoodiano, essendo un remake di un remake. L’omonimo film di John Sturges del 1960, infatti, era il remake americano de I Sette Samurai di Akira Kurosawa,  di 6 anni prima. Nel cinema americano che ormai deve solo pensare al botteghino, dove le idee nuove sono rischiose e vincono i film seriali di casa Marvel, I Magnifici Sette si inserisce in un sentiero già ben battuto, ma con l’intento – nobile – di rendere nuovo e fruibile un genere archetipico come il western, ed anche una vicenda parimenti archetipica.

Affrontare l’eredità di un remake non è facile; così come affrontare l’attualizzazione di un genere considerato (a ragione o a torto) del passato. L’eredità lasciata non deve mai essere assunta alla lettera, ma bisogna esserle in qualche modo infedele, svelandone anche gli aspetti dogmatici. Chi affronta il compito deve sapere cosa lo precede, ma anche riuscire a comportarsi in maniera non condizionata. Appropriarsi di un passato inappropriabile, e dargli un nuovo impulso, mantenendolo così vivo. È quello che ha fatto Tarantino coi suoi western-non-western, mescolando prima le storie, poi la Storia ed i generi, con assoluta libertà: i modelli si vedono, ma non sono gridati; al massimo sono stravolti. Questa operazione ha permesso a Carpenter di creare grandi western (Assualt on Precint 13 è un western) cittadini o addirittura marziani (Fantasmi da Marte è un western).

La polvere dentro
La polvere dentro

Fuqua non è Tarantino. Né tantomeno Carpenter. Non è neppure Sturges. È un mestierante di Hollywood, neppure dei peggiori, che in oltre 2 ore di film non introduce NULLA di nuovo, in una trama già di per sé arcinota. Coadiuvato da una sceneggiatura a tratta imbarazzante (Cristo, Nic Pizzolato!), realizza un film guardabile, ma dozzinale, che non è in grado di aggiornare né la trama né tantomeno il genere. E pensare che tante belle storie sono scaturite dall’archetipo del gruppo malassortito di mascalzoni che per qualche ragione si trova spalla a spalla a combattere contro un nemico sproporzionato, trovando così la redenzione di una vita! Penso di nuovo a Assault on Precint 13, oppure a La notte dei Morti Viventi (e seguiti) di Romero. Ai Magnifici Setti di Fuqua mancano molte cose, ma soprattutto la motivazione. Nessun personaggio (o quasi) ha una motivazione forte (fosse almeno la promessa dell’oro, inizialmente, come per Sturges!) per aggregarsi alla banda. Alla stessa maniera non vi è alcun approfondimento dei personaggi. Emblema della assoluta negligenza nei confronti dei personaggi è l’indiano Red Harvest: pitturato senza la cura neppure di verificarne la tribù, si unisce al gruppo “perché il suo destino è di fare grandi cose”.

Nonostante il buon cast, inoltre, gli attori non hanno la credibilità che dovrebbero. Innanzitutto c’è quello straniante effetto da “i colori Power Ranger” nel vedere i sette insieme. Non si tratta solo di Politically Correct, ma della necessità di Hollywood di vendere un prodotto anche in mercati esteri (la Cina è il primo mercato di film americani): da cui nasce la necessità di un personaggio per ogni colore, ogni etnia, ogni minoranza. Inoltre, non la sola eccezione di Ethan Hawke – quando la sceneggiatura non lo fa parlare di incubi e corvi -, tutti gli altri sono scarsamente credibili come cow boy brutti e cattivi. Forse perché nessuno di loro sente la polvere dentro. Non si può interpretare quel tipo di cow boy senza la polvere, a maggior ragione se la sceneggiatura non aiuta, lasciandoti da solo davanti alla cineprese. Il faccino pulito di Chris Pratt non è credibile, il suo gigioneggiare non è adatto e lui è ancora ingabbiato nel personaggio di Star Lord (I Guardiani della Galassia). Gli attori del remake originale di Sturges erano tutti cresciuti sulla strada, o quasi. Tutti con una storia alle spalle, che sullo schermo si vedeva. Impolverati, fin dentro al midollo. Anche Jeff Bridges, pur all’interno di un film non perfetto come Il Grinta, mostrava l’animo impolverato, che qui manca completamente.

Recitavano anche sotto la pioggia; nessun aumento di stipendio.
Recitavano anche sotto la pioggia; nessun aumento di stipendio.

Nell’ipocrisia di mercato americana tutto viene appiattito e Fuqua, da mestierante mediocre, non riesce ad andare oltre la creazione di un prodotto di intrattenimento, che non lascia alcun tipo di segno. Non ci sono i personaggi, non c’è il pathos né la morale western; niente onore e riscatto dei ronin di Kurosawa; non c’è neppure il rapporto con il villaggio da salvare, rappresentato solo da insistiti primi piani sul bel viso di Haley Bennett – non c’è quel rapporto ambiguo di paura-diffidenza-tradimento-amore tra i sette e il villaggio che così bene caratterizzava il remake di Sturges. Della sintesi postmoderna rimangono i tentativi maldestri e visibilissimi (errore!) di citare film del passato (i cavalli allineati, le riprese dal basso della strada e del cattivone di turno, la stessa colonna sonora), le battute tipiche dei film Marvel, una trama accartocciata sulla presentazione di alcuni dei personaggi protagonisti e un mucchio di cadaveri, che non creano sentimento, né pathos.

Sembra un cliché, dire che i remake non sono mai come l’originale (che le canzoni sono meglio in versione originale e che non ci sono  più le mezze fragole che avevano una stagione diversa, ai tempi miei), ma qui fanno di tutto per toglierti le parole di bocca. Anzi, il film è talmente superficiale e poco incisivo che non lo metti neppure in relazione con l’originale. Non c’è nulla della ricerca postmoderna, nulla del tentativo di innovazione. Non è un western, ma una puntata poco riuscita di un telefilm Marvel. Prendendolo solo come puro intrattenimento, senza alcuna velleità e dimentichi del passato, forse, potrebbe raggiungere la sufficienza. SE non ci fosse la scena finale. Nel tentativo di omaggiare proprio tutti, prima assistiamo a una riproposizione della scena finale vista da Sturges e poi da una riproposizione della scena finale dell’originale di Kurosawa (“Oh hai visto che ho studiato? Ho guardato anche i film coi sottotitoli” –gomitogomito-). In una tremenda CGI (perché?) vediamo le tombe dei caduti accarezzate dal vento. E la voce fuoricampo della Bennet che CI SPIEGA IL TITOLO: erano sette e sono stati… magnifici.

Non ne sentivamo il bisogno, grazie.

 

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