La sinfonia della strada indiana
Dell’India, prima di partire, hai quelle impressioni distratte ed approssimative nate dall’accumularsi, anno dopo anno, di visioni discordanti e dettagli disordinati. C’è quel film di Bollywood sgargiante di cui hai visto gli ultimi dieci minuti facendo zapping. Ci sono i filosofi che nell’incertezza dell’Occidente di fine ottocento guardano ad Oriente; ci sono gli scrittori che li seguono e ti pubblicano un Siddharta letto e riletto fino a consumare la copertina. Ci sono le storie di Marco Polo e quelle di Kipling; cè il fardello dell’uomo bianco e la rivolta dei Sepoy, scoppiata per qualche voce riguardante il metodo di caricamento di un nuovo fucile. C’è Gandhi, Maria Teresa di Calcutta, le mucche sacre, i santoni che girano in mutandoni, i turbanti. Ci sono i Beatles e pure quella tamarrata colossale che è Mundian To Bach Ke. Hai i sari, le caste, migliaia di dei dalla forma insolita; hai il buddhismo e i call center. Hai la più grande democrazia del mondo. Hai un tasso di corruzione allucinante.
Dell’India, prima di prendere un aereo ed imbarcarti per un lungo volo, hai insomma tutto e niente: sta a lei, poi, smentirsi, contraddirsi, sostenere le proprie tesi. Sta a te accettare quel che vedi, rifletterci, rifiutare tante contraddizioni, non tornare mai più o non dimenticarla mai più. Sta a te capire dove si trova l’equilibrio tra una spiritualità che nemmeno la globalizzazione galoppante riesce a sopire ed un degrado strisciante.
Sul biglietto aereo, a scritte cubitali, DELHI: quella gigantesca, tentacolare capitale di cui hai letto ogni particolare con ansia sulla fedelissima Lonely Planet e che non vedi l’ora di assaporare. Una metropoli da milioni e milioni di anime che vive alla luce del giorno la contraddizione palese tra l’essere uno dei centri di ricchezza e potere più importanti del subcontinente e allo stesso tempo la casa, a cielo aperto, di innumerevoli disperati. Un crocevia tra l’imperiale dominazione inglese, che lascia il suo zampino su pomposi palazzi del governo, la recente storia della Repubblica – con una monumentale Tomba di Gandhi meta di infiniti pellegrinaggi e di numerose, chiassose scolaresche – e una religiosità vissuta appieno, tra fenomenali templi hindu e il Tempio del Loto, simbolo della città oltre che pacifico santuario dell’innovativa fede Ba’hai.
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Ad attenderti all’Aereoporto Internazionale Indira Gandhi, intanto, non c’è soltanto un piccolo signore mandato dall’agenzia turistica ad accoglierti: c’è anche lei, quella che sarà un po’ la tua compagna e il tuo tormento, un punto di riferimento ed un inferno. La strada indiana, simbolo perfetto della contraddizione di una Repubblica da quasi un miliardo e mezzo di anime.
Partiamo da un presupposto: in confronto all’India, Napoli è una grande, tranquilla ed ovattata scuola guida. Inutile lamentarsi di chi non usa la cintura di sicurezza o il casco, di chi ogni tanto attraversa con il semaforo rosso o di sorpassi dall’aria sospetta. Così come quando si legge si ha quella “volontaria sospensione del dubbio momentanea, che costituisce la fede poetica”, quando si sale su un’auto nel subcontinente indiano è necessario sospendere ogni propria conoscenza del codice stradale ed affidarsi alle esperte mani dell’autista, magari incrociando segretamente le dita sotto al proprio sedile. Andiamo?
I protagonisti che si contendono il caotico palcoscenico dell’asfalto sono tanti – uno più agguerrito dell’altro. Una delle prime cose che si nota, inoltrandosi tra gli edifici della capitale, è la scarsa varietà dei mezzi di trasporto: scivolano davanti agli occhi file e file di Honda e Suzuki esattamente identiche nel loro essere bianche, un po’ retrò, decisamente ammaccate. Ogni tanto, a concedere uno sprazzo di colore è un tuk tuk: sorta di taxi proletario fieramente verde e giallo, praticamente un’Ape Car a cui sono state tolte le portiere. La mancanza di portiere, ovviamente, non deve spaventare: vi capiterà più spesso di quanto vorreste di assistere a qualche scena rocambolesca in cui un indiano frettoloso rincorre un autobus in corsa e ci sale al volo – moderno Indiana Jones. Altro mezzo di trasporto inatteso sono i risciò, classiche piccole carrozze trasportate da stanchi omini su biciclette che sembrano uscire direttamente da un libro per bambini.
I tuk tuk sono, tra l’altro, il mezzo più semplice per confondersi tra la folla accalcata delle stradine commerciali di Vecchia Delhi, tra fili del telefono penzolanti, banchetti della frutta e negozi che rivendono pezzi provenienti da auto rubate, scolaretti che escono gioiosi dalle scuole con gli zainetti in spalla e l’occasionale baracchino che vende cibo di strada, unto e speziato. È tra queste strette vie affollate che per la prima volta comincerete a distinguere come un’amica fedele e un po’ invadente quella musica che penetrerà finanche nell’auspicata tranquillità della vostra camera d’albergo: la sinfonia della strada indiana. Là dove la segnaletica stradale fallisce, le strisce pedonali non si sono mai avventurate e le frecce sono sostituite da omini che segnalano la volontà di sterzare con un braccio fuori dal finestrino, la risposta universale che è stata trovata ad ogni problema della vita è una sola: il clacson. Glorioso, immancabile clacson. Lo sognerete di notte, lo sentirete ovunque di giorno. Vi troverà, e vi ucciderà i timpani.
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Eppure non pensate di scorgere, sul volto di qualsiasi autista indiano, la minima traccia di arrabbiatura, di indignazione, di contrarietà ad un destino avverso che li ha costretti a guidare in mezzo alla fiumana del progresso: sta qui, quel punto d’equilibrio, quella forza di spirito che gli occidentali da sempre cercano disperatamente avventurandosi tra la polvere dell’Oriente. Loro guidano tra camion enormi decorati da svastiche e da scritte creative a tema “PLEASE HORN”, fanno lo slalom tra cammelli tranquilli in mezzo all’autostrada, vedono ambulanti addestrare sul marciapiede scimmie tinte di verde a pois gialli, superano e si fanno sorpassare in qualsiasi direzione, sono spesso costretti ad abbandonare la carreggiata e correre per qualche metro in mezzo alla sabbia per via di qualche mucca cocciuta o lavoro in corso abbandonato. Affrontano pedoni che attraversano senza curarsi minimamente del mondo esterno e cemento dissestato, il tutto sempre con l’incessante serenata di strada che riempie l’aria.
E sei tu, il turista europeo che l’India non può che accarezzarla per qualche breve settimana, l’unico a non godersi, tranquillo, lo spettacolo di questa placida tribù umana.
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