La rivoluzione delle scimmie

La rivoluzione delle scimmie

La saga del pianeta delle scimmie risale al 1963, quando lo scrittore francese Pierre Boulle pubblicò un romanzetto in cui degli astronauti si ritrovavano su un pianeta dall’ordine sovvertito in cui a dominare erano i primati mentre gli umani erano regrediti ad uno stato primitivo. La modesta fama del romanzo venne presto oscurata da quella del primo adattamento cinematografico (1968) diretto da Franklin Schaffner, con Charlton Heston a fare da protagonista.

Mescolando distopia, critica (o meglio satira) sociale, ecologismo, la saga proseguì con sequel, serie tv e merchandise assortito fino all’ultimo tentativo – catastrofico – di reboot targato Tim Burton all’alba del nuovo millennio. Poi silenzio per dieci anni.

Dieci anni in cui ne successero di cose.

Una su tutte, uscì un film che rivoluzionò il modo di trasporre creature non-umane al cinema.

Per tutti i suoi 40 anni di vita infatti, chi si cimentava con la saga aveva sempre dovuto confrontarsi con il problema dell’espressività dei primati. L’uso obbligato di chili e chili di cerone, ciuffi di peli e materiale prostetico avevano fatto sì che si fosse sempre scelto di mantenere il punto di vista degli umani, relegando gli animali al ruolo di co-protagonisti (nemici o spalle comiche) ma mai di veri personaggi principali. La rivoluzione tecnologica portata avanti dalla Weta di Peter Jackson aveva aperto praterie (e se la storia ci insegna qualcosa è che quando una scimmia vede una prateria inizia a camminare su due zampe). I tempo erano maturi per poter raccontare la storia dal punto di vista dell’altra metà campo.

Ma gli anni 2000 furono anche anni di crescente tensione sociale (la crisi finanziaria, le lotte per i diritti civili, le proteste nel mondo islamico) uniti a disastri naturali che ci hanno fatto riconsiderare la nostra posizione nell’ecosistema: lo tsunami del 2004, l’uragano Katrina, ma anche alcune delle pandemie più gravi dai tempi dell’HIV come la SARS, l’influenza aviaria e quella suina (scrissi questo pezzo nel gennaio 2020…mo’, non so se avete notato, ma poco dopo è successa una cosa che non cambia quanto appena detto ma sicuramente lo relativizza).

Insomma, avete capito dove voglio arrivare: progressi tecnologici + scontento popolare + natura sul piede di guerra = i tempi erano maturi: film di scimmie rivoluzionarie!

Ne abbiamo fatta di strada

Il primo film – L’alba del pianeta delle scimmie (2011) – fu un fulmine a ciel sereno nel panorama del cinema d’intrattenimento (qualunque cosa questo voglia dire), e resta ad oggi una delle migliori cartucce di “fantascienza intelligente” del decennio. La regia venne affidata a tale Rupert Wyatt, semisconosciuto regista britannico fresco di nomine per il suo Prison Escape. Nonostante fosse solo il suo secondo film, Wyatt mostra una regia solida e bilanciata, in grado di regalare sequenze maestose senza però sfociare nei virtuosismi che sono tipici dei “registi giovani che vogliono dimostrare il loro valore”. Bravo Wyatt, poche chiacchiere e daidaidai.

Ma, poche scuse, la vera star dell’operazione era la faccia di pongo di Andy Serkis, e il suo personaggio, lo scimpanzè Cesare, è il protagonista assoluto della nuova trilogia.

Seguendo un arco narrativo che lo porterà da Che Guevara a Mosè, Cesare guiderà l’insurrezione dei primati contro l’oppressione umana per fondare una società di libertà, uguaglianza e fraternità nelle rigogliose foreste del nord-ovest. Tra case farmaceutiche senza scrupoli, globalizzazione rampante, militari dal grilletto facile e centri di detenzione più simili a manicomi ottocenteschi, questo film si fa carico di varie denunce sociali e le ultime scene di guerriglia urbana tra scimmie e poliziotti rimandano fin troppo esplicitamente ai coevi scontri del Regno Unito (paese natio di Wyatt e Serkis).

Lanciato nel mondo della motion-capture da Peter Jackson, Andy Serkis con gli anni ne è diventato volto simbolo, massimo esperto nonché esegeta filosofico e non ci vuole molto a capire che l’intera operazione si possa riassumere come il tentativo – ahimè fallito – di far vincere un Oscar ad un’interpretazione in motion-capture. Sue sono tutte le “scene madri” (e ce ne sono parecchie) e desta più di un sospetto il fatto che a nessun personaggio umano – James Franco, Gary Oldman, Freida Pinto, Brian Cox (non degli scappati di casa insomma) – sia stato dato modo di tornare tra un film e l’altro. Anche la lenta – ma costante – trasformazione estetica che da scimpanzè lo farà diventare sempre più “umanoide” è facile da immaginare come tentativo per rendere la sua performance più appetibile agli occhi dell’Academy.

Tanti cuori per lui

Pur non venendo premiato agli Oscar (abbastanza scandaloso, in effetti), il film fu un trionfo di pubblico e critica e quando i produttori lo realizzarono si posero il dubbio: lasciare campo libero al sempre più fomentato Wyatt e rischiare, o affidare il progetto ad un regista disposto a seguire gli ordini dall’alto senza fare troppo rumore? Chiaramente si scelse la seconda opzione ma, ciononostante, il nuovo regista, Matt Reeves, seppe giostrarsi più che egregiamente nei due sequel, rivelandosi assolutamente all’altezza del suo predecessore senza averne però i grilli per la testa né forse la verve politica.

Se il primo film è infatti il più barricadèro, Apes Revolution (2014) lascia da parte la politica per avvicinarsi ai più rassicuranti stilemi dei film sul primo contatto e del buon selvaggio come Pochaontas o Avatar (senza, per fortuna, la storia d’amore interraziale), dove il conflitto è dato non dall’esigenza ma dalla diffidenza reciproca e da pochi sobillatori.

La società “bonobo power” fondata da Cesare – e auspicata da Caparezza – viene messa a repentaglio proprio da un bonobo: Koba (nomignolo di Stalin durante gli anni giovanili – wink wink) fu il primo seguace di Cesare e, proprio come Stalin, Giuda o Di Battista, tenterà di deporlo per fondare una nuova realtà che segua davvero gli ideali del leader prima che questi si rammollisse e cambiasse idee. È il classico “sequel calmo”, in cui si rallenta la trama per approfondire temi e personaggi introdotti nel primo capitolo, sondare gli umori del pubblico e capire fin dove ci si potesse spingere. Per dirla con Gandalf: “è il respiro profondo prima del balzo”.

Balzo che, in War for the planet of the apes (2017), si concretizza a tutti gli effetti: l’umanità è oramai praticamente scomparsa, distrutta non dalla guerra ma da un virus trasmesso dai primati, e il colonnello Woody Harrelson – un po’ Kurtz, un po’ Achab – è intenzionato a vendicarla. Lo scontro tra i due condottieri, tanto simili e tanto diversi, è il perno centrale del terzo capitolo e regala una degna conclusione alla trilogia, riportando al centro la tematica della ribellione e della libertà, con allusioni non troppo velate ai campi di concentramento, le persecuzioni e l’esodo ebraico.

Mescolando una regia ispirata, scenografie sontuose, prove attoriali e effetti speciali da capogiro e un messaggio di fondo apprezzabilissimo, se c’è una trilogia del decennio 2010-2020 che merita di essere guardata, è questa.

Il quarto stato

“Signore, ma quindi è un capolavoro?” chiede a questo punto un sudaticcio adolescente dalla prima fila.

Calma, mio fastidioso amico. Prima di tutto “signore” ci chiami tuo zio (io sono il Signor Signore); detto ciò, io la parola con la C per questo decennio l’ho usata – davvero – solo per Mad Max, quindi andiamoci piano nello spellarci le mani. Però sì, tra i film in cui vediamo un gorilla prendere a pugni un cavallo è sicuramente il più maturo; se ti piace classificare i film secondo compartimenti stagni, lo potresti definire “un ottimo blockbuster”.

Certo, ogni tanto pare credere un po’ troppo nell’importanza del proprio messaggio e, per paura che a qualcuno possano sfuggire le metafore (che sono sempre state presenti nella saga), tende a rimarcare quel che vuole dire ai limiti del didascalismo: le scimmie strappate dalla lussureggiante Mama Africa, il biblico attraversamento del deserto, Woody Harrelson truccato da Marlon Brando.

Oh, poi può essere benissimo che parlo da 30enne accidioso e navigato, e magari ai 15enni contemporanei se non gli urli costantemente in faccia OH MA HAI CAPITO CHE LE SCIMMIE SONO UN’ALLEGORIA?!?! non riescono ad andare oltre il primo livello interpretativo, ma questi sono problemi comuni a tutto il cinema contemporaneo e non possiamo certo incolparne Wyatt, Reeves o Serkis.

Io mi godo l’epica e il fomento, le esplosioni e le scimmie.

Woody Harrelson che fa Marlon Brando che fa il Colonnello Kurtz

Del resto, se Scorsese non ha sentito il bisogno di indire una crociata contro le scimmie, ci sarà un motivo.

Anche tu puoi sostenere SALT! Negli articoli dove viene mostrato un link a un prodotto Amazon, in qualità di Affiliati Amazon riceviamo un piccolo guadagno per qualsiasi acquisto generato dopo il click sul link (questo non comporterà alcun sovrapprezzo). Grazie!

NO COMMENTS

Leave a Reply