La “Palazzina LAF”, l’ILVA di Taranto e le storie che perdiamo di vista
Sei al cinema e tra le varie uscite che stanno sbancando in questo periodo vedi il trailer di Palazzina LAF e pensi: ‘oddio l’ILVA…’
Archivi l’informazione e vai avanti.
Partiamo da qui. Dall’ammettere un fatto ovvio che nascondiamo in primis a noi stessi, in nome di un comprensibile perbenismo.
Perché in fondo – e i numeri dei click agli articoli sulle grandi crisi industriali contemporanee parlano chiaro – è quello il posto che occupa l’ennesima cattiva notizia. La negazione. Il disinteresse. Abbiamo sviluppato una forma di impermeabilità. Che è protezione, certo. Ma a volte diventa concorso di colpa.
Il pensiero però continua a rugare. E alla fine – per fortuna – a vedere Palazzina LAF ci vai.
Michele Riondino è alla sua prima prova da regista in un film tratto da Fumo sulla città, il libro di Alessandro Leogrande che, peraltro, avrebbe dovuto anche firmare la sceneggiatura, ma è venuto a mancare durante la lavorazione della pellicola.
La storia centrale, però, non è quella della grande, infinita e mediaticamente pluriraccontata crisi dell’ILVA di Taranto, come potrebbe sembrare a uno sguardo distratto. La storia è quella di un particolare reparto della fabbrica. Ma, soprattutto, la storia è quella di un modo di fare per il quale il presidente del consiglio di amministrazione dell’ILVA, Emilio Riva ed altre figure apicali sono stati condannati in appello nel 2006.
Una vicenda di mobbing riguardante diverse decine di lavoratori che nel 1998 vennero confinati nella ex palazzina LAF dell’impianto. Una vicenda in (dis)equilibrio tra miseria e potere. Tra sfruttamento dell’ignoranza e bracci di ferro impari. Tra fame e assenza di futuro.
La palazzina LAF è il luogo del confino di chi si oppone. È il luogo dove venivano mandati a passare i giorni senza far nulla operai e impiegati qualificati ‘scomodi’ per essere sostituiti da altri. E dopo questa pausa di settimane “a bagno Maria” (cit.) veniva offerto loro un impiego per il quale non avevano competenza, generando così il cortocircuito per il quale l’azienda potesse accusarli di non voler lavorare.
La palazzina LAF è il luogo del confino ma è anche il luogo da tenere sotto controllo. Sono le mura tra le quali la dirigenza ha bisogno di sapere cosa accade. Così il capo sceglie l’operaio a cui promettere vantaggi e migliorie, in cambio di informazioni.
Ma può essere ritenuto davvero colpevole perché in combutta chi vuole scappare dalla miseria di un altoforno? Da una pala che sposta pile di materiali che col tempo corrodono mortalmente (e inconsapevolmente) i polmoni?
La palazzina LAF è quindi la protagonista di questa storia.
Non l’operaio – spia. La sua miseria, forse sì. La sua ignoranza, pure.
La palazzina LAF è protagonista perché simbolo e non metafora.
La palazzina LAF è il manicomio del mondo del lavoro senza scrupoli, dove i pazienti sono le vittime (in)consapevoli del sistema.
Certo, non siamo davanti Sorry We Missed You – per citare un altro grande film che narra di un fenomeno contemporaneo del mondo del lavoro – e Michele Riondino non è Ken Loach. Ma Palazzina LAF ha un modo delicato e violento allo stesso tempo di ricordarci – senza imporceli – tutti i temi che fanno da sfondo a questa storia particolare e che ancora oggi ci trasciniamo.
Il rosso della polvere d’acciaio è una pioggia che si colora. La malattia è una crisi di tosse che non passa. Il sangue non si vede ma si ‘respira’. La morte sul lavoro è una bara con un caschetto da operaio.
Come Paola Cortellesi in C’è ancora domani ha scelto di rappresentare la violenza domestica senza mostrare il gesto dello schiaffo, così Riondino racconta la cronaca e le inchieste sull’ILVA per suggestioni dirette e indirette.
È un bel ritorno dell’impegno civile nel cinema italiano anche quello di Palazzina LAF, quindi. Ma soprattutto è un grande richiamo alle nostre coscienze. Quelle di cui parlavamo all’inizio. Quelle stanche delle cattive notizie. Quelle che si sentono impotenti di fronte a un pensiero difficile da padroneggiare.
La fine di un modello industriale. Un tipo di lavoro che non può più esistere (o meglio, che purtroppo continuerà a esistere in un altrove più sfortunato e men o costoso per le aziende). L’esigenza di non abbandonare un territorio alla fame. I divari sempre più marcati della società contemporanea.
Ma tra le mura di un cinema, forse, possiamo provare a riaprire gli occhi e ricordarci che sapere cosa accade significa saper scegliere meglio chi può risolvere un problema.
O almeno sapere di dover chiedere di farlo.
“Vi siete mai chiesti come mai accanto alla più grande acciaieria d’Europa non ci sia nemmeno una fabbrica di forchette? Il nostro acciaio serve a costruire la ricchezza di qualcun altro”
Se volete approfondire la vicenda, vi suggeriamo, tra le tante opere recenti o meno uscite sull’ILVA, il libro della giornalista tarantina Valentina Petrini Il cielo oltre le polveri – Storie, tragedie e menzogne sull’ILVA.
“È l’unica prospettiva di lavoro e quindi di vita. È un mostro sorpassato dai tempi. È una grande impresa italiana. È uno scandalo nazionale. È l’Ilva: fin dalla fondazione un’azienda considerata strategica per il nostro Paese, un’industria siderurgica con alle spalle quasi settant’anni di storia. Ma che ha visto tragedie come quella di Francesco Zaccaria, finito in mare con la cabina della sua gru durante una tempesta; e quella di Alessandro Morricella, consumato vivo da una colata incandescente; e molte altre. Periodicamente, singoli eventi emergono nella cronaca: contaminazione ambientale, malattie, vittime sul lavoro.
Ma dietro le notizie e le vicissitudini giudiziarie si staglia, più vasta e apparentemente senza fine, la maledizione di un’intera città, Taranto bella, avvelenata e impaurita, Taranto che si chiude in casa nei «Wind Days». A ciascuno il suo dramma, per ciascuno la stessa domanda: come cambiare il corso di questa storia?
Valentina Petrini è cresciuta proprio a Taranto, in un quartiere operaio a ridosso dell’Ilva dove le polveri si posano sui balconi delle case e sui giochi dei bambini. Si è trasferita a Roma per costruire una carriera. Torna sui luoghi della sua infanzia per fare i conti con il grande racconto nero dell’Ilva.
Lo compone in queste pagine con sensibilità e con forza, parlando con i testimoni e i parenti delle vittime, interpellando professionisti e istituzioni, seguendo i dibattimenti in aula, interrogando il suo stesso passato. E scrive un libro necessario, intenso e vivo, dopo il quale non sarà più possibile dire «non sapevo»”.