Amanda Palmer: la musica cambia

Amanda Palmer: la musica cambia

La musica sta cambiando. Non è solo un modo di dire, il mondo della musica è per davvero in pieno cambiamento. E sembra che le case discografiche siano le sole a non rendersene pienamente conto. La musica cambia perché è espressione del mondo e quindi muta con esso. Cambia perché fare musica significa seguire le tecnologie nascenti ed usate, significa seguire le mode e i gusti del pubblico, anche in fatto di tecnologia.

Anche se il fenomeno Myspace meriterebbe una riflessione più approfondita, riguardo all’evoluzione dell’etichetta musicale, il primo vero cambiamento mondiale è forse stato percepito nel 2007, quando i Radiohead annunciarono, con un certo clamore, che il loro nuovo album sarebbe stato completamente scaricabile da internet, pagando solo quando il consumatore avesse gradito. Da un dollaro in su. La verità è che fare musica costa, non è una novità. Costa la band, il noleggio delle attrezzature, il mixer e gli effetti, la sala registrazioni, il tizio che porta i caffè… Ma soprattutto costa di tasse, costa pagare le etichette che ti fanno pubblicità e ti stampano il cd (e ti indicano anche cosa cantare, come cantarlo, limitando la libertà artistica). Ora, però, il cd è solo uno dei tanti mezzi con cui ascoltare musica, neppure il più usato. Dopo i Radiohead, molti altri artisti hanno iniziato a preferire altre vie, meno canoniche, di diffusione del loro lavoro. In questo internet ha sicuramente dato una mano.

Il problema dei soldi, però, rimane: senza etichetta (senza cd, libretto stampato e altro), chi avrebbe pagato la musica? Sempre internet è venuto in aiuto, perché la tecnologia, quando usata con criterio, è di enorme ausilio. Sono nati i siti di crowdfounding: piattaforme, cioè, da cui chiunque (non solo cantanti o artisti) può lanciare il proprio progetto e chiedere “aiuto” economico ai fan, se si tratta di artisti, o alla gente della rete, che ritiene quel progetto valido e da promuovere. Fra i più usati, nel mondo, esiste Kickstarter.com, ma non è il solo: Musicraiser.com, per esempio, è specificamente rivolto ai giovani musicisti emergenti.

Anche la pubblicità, come la musica, è cambiata: ora si fa sui social network, su Twitter e su Facebook, che sono diventate le piattaforme preferite di molti artisti, che si coltivano, così, e si coccolano una mandria nutrita di fan a cui regalano foto su Instagram e altro.

Se c’è un’artista che, più di altri e partendo da più in basso, ha fatto sua la lezione è Amanda Palmer. Ex frontman dei Dresden Dolls (notevole duo bostoniano piano-batteria), Amanda ha saputo sfruttare al meglio le nuove tecnologie, a partire dai social network: un profilo di Twitter sempre aggiornato da lei stessa (puntualizzazione non banale, oggi), un account Tumblr e uno di Instagram, un blog in cui pubblica fiumi e fiumi di parole e fotografie e un rapporto creato coi fan che ha dell’incredibile. Da questi mezzi, ha fatto partire più di una battaglia che ha coinvolto la folla scalmanata dei suoi sostenitori, a partire dalle recenti vicende della giovane Amanda Todd, capaci di creare un flusso immane di commenti e pensieri, in quello che è diventato un blog fatto dai lettori, invece che per i lettori. Questo uso sapiente e anche un po’ egocentrico dei media ha condotto Amanda dritta dritta al palco del TED (Technology Entertainment Design), la convention di menti brillanti (da Clinton ai premi Nobel), che offrono mini lezioni al pubblico. Non è poco.

Non finisce qui: la giovane artista di Boston ha recentemente pubblicato un album, interamente finanziato da fan su Kickstarter, che vanta un primato mondiale. È stato il primo progetto di Kickstarter a superare il milione di dollari di donazioni! La capacità di coinvolgere i fan, di farli sentire parte di qualcosa, questa volta, ha dato frutti molto più promettenti di qualunque pubblicità. Il tutto senza una etichette, senza una major. La rivoluzione è iniziata o, come dice Amanda, Weare the Media! Oltre alla partecipazione, i backers possono poi godere di “benefit”, cioè di edizioni limitate e firmate dell’album, oppure di incontri diretti con l’artista, per le donazioni più cospicue (spesso divise fra più persone, per condivide l’onere e il premio). Si tratta di una nuova visione del rapporto artista-sostenitore, che culmina solamente nel concerto (e Amanda dal vivo è semplicemente straordinaria), ma che prevede un fitto dialogo precedente.

Dopo un disco di cover dei Radiohead con l’ukulele e il sottovalutato concept Evelyn Evelyn, Amanda Palmer, insieme ad una band di musicisti navigati, la Grand Theft Orchestra, ha pubblicato nel 2012 il suo secondo album da solista, Theatre is Evil, una summa dei luoghi musicali dell’artista. L’album si apre con Smile, canzone con ritmo molto marcato, grazie ai bassi di Jharek Bischoff e alla batteria di Michael McQuilken, che parla della tendenza narcisistica della nostra moderna società a fotografare/riprendere ogni cosa, sovrapponendo la vita e l’esistenza, con la presenza della foto e della fotocamera. Da qui il disco assume un andamento altalenante, alternando canzoni dai ritmi importanti e martellanti, a ballate più lievi e tristi. Del primo gruppo fanno sicuramente parte Do it with a rockstar, summa dello star system, e Wantit back, che sembra quasi una filastrocca detta troppo veloce ed è il primo singolo estratto, da cui è nato un video completamente in stop motion, di notevole impatto. Anche il video di Do it with a rockstar merita una visione, se avete un account di Youtube (è bloccato per le protezioni ai minori), per capire cosi si può fare con una band completamente pazza, un gruppo di travestiti, la pornostar Stoya, un’anguria e una quantità eccessiva di brillantini dorati. Difficile credere che tutto possa essere contenuto in un solo video.

Come sempre nelle sue canzoni, la sua vita personale si intreccia alla musica, viene condivisa con gli ascoltatori. The Killing type nasce da una lettera scritta da sua madre e si indaga sulla sua reale capacità di fare male fisico agli altri, su come non tutti siano capaci o portati all’attacco e neppure alla difesa. Trout Heart Replica, invece, ricorda uno dei primi appuntamenti fra lei ed il suo attuale marito, lo scrittore Neil Gaiman (Sandman, American Gods…Personaggio folle almeno quanto lei), che, da buon inglese, la portò a prendere le trote per cena in un allevamento, dove l’allevatore pescò ed uccise il pesce davanti a loro. Ciò che è normale per l’Inglese Gaiman, non lo è per la ragazza che ha sempre vissuto a Boston, che conosce il pesce solo già a tranci o quasi!

I vertici artistici dell’album sono: Grown Man Cry eThe Bed Song. La prima canzone segue una tonalità bassa, quasi viscerale, che ricorda le sonorità dei Cardigans, negli anni ’90, ma più cupe ed affidate ai sintetizzatori, che lasciano scoprire i sussurri e le grida della cantante. A chiudere l’opera, nei live la canzone è accompagnata da un crowdsurfing da lasciare senza parole, con Amanda che si butta sul pubblico con uno strascico bianco che arriva a coprire tutta la platea, prima che lei risalga sul palco. The Bed Song è, invece, il brano più emozionale di tutto il disco, capace di raccontare una storia d’amore attraverso gli spazi occupati e gli oggetti (i letti, nello specifico), con un finale struggente che difficilmente lascia indifferenti.

L’idea di fondo dell’album è in pieno stile Amanda Fucking Palmer: prendere ritmi semplici e caricarli, ossessivamente e egocentricamente, in un progetto di nobilitazione di refrain basilari che partono e tornano tutti sulla figura dell’artista. È proprio lei il centro del suo mondo, da cui permette che tutto parta e a cui tutto tende e torna. Matta al punto giusto, con una band d’eccezione e collaborazioni incredibili (Wayne Coyne dei Flaming Lips, per dirne una), Amanda fa del culto della personalità un brand, o meglio un non-brand, un’etichetta per tutti quelli che non vogliono avere etichetta, per tutti coloro che si sentono diversi o che gli altri fanno sentire diversi. I suoi fan più scatenati sono freaks, reietti dei college americani, sono quel tipo di persone che dominerà il mondo, quando accetterà se stesso e capirà che il culto della cheerleader dura al massimo il tempo del liceo. Bisogna ammettere, però, che il suo punto di forza è anche la sua debolezza: innanzitutto i sostenitori di Amanda possono talvolta essere insopportabili, in secondo luogo non è mai semplice distinguere fra la reale capacità dell’artista e la spinta dalla base dei sostenitori. Io la mia idea ce l’ho, consiglio di ascoltare il disco e di recuperare le produzioni passate, per provare a capire. Alla fine, però, anche questo è dato dal cambiamento in atto: la musica ora la fanno anche i fan, le case discografiche dovrebbero iniziare a temere per il loro futuro. We are the media.

Alessandro Pigoni

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