La morte, e poi la vita, di John F. Donovan: il ritorno...

La morte, e poi la vita, di John F. Donovan: il ritorno di Xavier Dolan

La mia vita con John F. Donovan

Nessuna sorpresa: Xavier Dolan si riconferma il maestro del non-dialogo e della sconfitta del dialogo, dell’incomunicabilità e della comunicazione fallita – fil rouge silenzioso di tutti i nostri rapporti sociali, i quali tuttavia sono i soli che permettono di identificarci in quanto “io” (alterità è identità) e sono quindi necessari alla sopravvivenza dell’uomo zōon politikon. Indossando i panni alternativamente dei due protagonisti maschili, John F. Donovan e Rupert Turner, il regista canadese cuce una storia in sé assai poco verosimile, in cui però lo scavo psicologico, evidenziato dai costanti giochi a specchio e meccanismi analogici tra le due vite parallele, è – secondo lo stile che gli è proprio – profondissimo e disarmante.

John Donovan è una celebrità di Hollywood, nota specialmente ai giovanissimi per un suo ruolo in una serie televisiva di stampo fantastico (e guarda caso Kit Harington, che interpreta John F. Donovan, lo è per davvero). Dietro la maschera del personaggio pubblico, si celano un’atroce solitudine e la sofferenza di non poter esprimere la propria identità, in particolare l’omosessualità. Una lettera da parte di un fan undicenne (Rupert Turner è brillantemente interpretato da Jacob Tremblay, lo stesso dell’incubo di Room) diventa allora l’occasione per instaurare una fitta corrispondenza nella quale il giovane ammiratore assume vieppiù il ruolo di unico interlocutore.

D’altra parte, anche quest’ultimo non se la passa molto bene: bullizzato a scuola perché considerato diverso (per interessi, per orientamento sessuale), è deciso a intraprendere la carriera d’attore ma il suo immenso potenziale creativo è represso, trovandosi così a riversare il suo mondo taciuto nel folto scambio epistolare con il grande attore. Quando la loro curiosa corrispondenza viene scoperta e divulgata dai media, John Donovan è costretto però a tradire pubblicamente la fiducia del suo unico amico (amico anche nel senso platonico della paidéia). Dopo altri scandali e delusioni, tenterà con scarsi risultati di affermare, di espellere (ex-pellĕre, ‘spingere fuori da’), la propria identità: morirà invece per overdose [non mi accusate di spoiler: è la prima scena del film]. La cornice, piuttosto convenzionale, è costituita dall’intervista di una giornalista del Times a Rupert dieci anni dopo la scomparsa di John.

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Si ritrovano in questo film i macro-temi cari al regista e all’uomo, il quale difatti nell’avant-première parigina del 28 febbraio ha dichiarato: «È il miglior film che possa offrirvi […]. Amo molto il film che state per vedere, ne sono estremamente fiero […]. Ho dato veramente tutto perché esista, mi sono battuto fino alla fine». A titolo esemplificativo, e per coppie oppositive: cinema e vita, finzione e realtà (intesa, questa, come assenza di verità consolatorie: Dolan ce le ha distrutte tutte), giovinezza e perdita della giovinezza, madre e padre, assenza e presenza, intime e extime, interni ed esterni. E poi le manifestazioni dell’amore, l’omosessualità, l’adolescenza, il rapporto tra fama e solitudine… Il regista tratta ancora una volta gli spunti autobiografici in modo articolato e sapiente, per quanto l’impiego di uno schema già rodato gli abbia procurato gli strali da parte della critica americana a seguito del Toronto International Film Festival, incidendo, stando alle stesse parole del canadese, sul destino del film, che per ora è distribuito solamente in Francia.

Ma, si diceva, non è il plot l’elemento di rilievo né l’originalità dei temi sollevati, quanto le modalità. L’occhio lacaniano di Dolan per tutto il film trafigge i personaggi come una freccia il San Sebastiano, sfruttando in alcuni momenti lo zoom improvviso à la Godard per trasmettere immediatezza. Il montaggio, curato dal regista insieme con Mathieu Denis e frutto di un lavorio durato due anni, interpreta e traduce appieno le dinamiche interpersonali, frantumandosi, tra ricordi e narrazione, tra una solitudine e l’altra, in costanti flashback e passaggi singhiozzanti. Tra le scene più agghiaccianti, la cena festiva nella casa della madre di John, che richiama inequivocabilmente il disagio del ritrovo familiare in Juste la fin du monde.

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Non si ferma all’impasse, però, lo sguardo dostoievskiano così acuto e penetrante di Dolan, ed è su questo che vorrei concentrare la mia lettura. Il regista ci offre spiragli di luce pura, di speranza raggiante, nei (rari e preziosi) momenti in cui la dinamica negativa viene meno, e che avevamo apprezzato nel formato 16:9 di Mommy: questi barbagli, che hanno lasciato una traccia su carte di volta in volta rubate (la lettre è davvero volée), nascoste, rinnegate, sono riflessi anzitutto nel sorriso delle donne che ruotano attorno ai due protagonisti con una caratterizzazione impeccabile e complessa. Dalla madre di Rupert (Nathalie Portman), che trasforma in forza la consapevolezza della propria fragilità, alla madre di John (Susan Sarandon), che annaspando tra abitudini antiche trova la linfa per guardare in modo nuovo la sua famiglia (e proprio grazie a questa nuova linfa John può assolvere la madre per il fatto che lei non lo conosca realmente, e l’ignoranza diventa per una volta una forma di salvezza); dall’insegnante di Rupert all’agente di John, che impartisce una lezione necessaria al suo sottoposto, per finire poi con la giornalista che intervista Rupert da adulto, da sempre impegnata sul fronte sociale e politico ma costretta infine a mettere da parte i propri pregiudizi per riconoscere, esattamente come Dolan invita il suo pubblico a fare, che la solitudine non dipende certo dal reddito, che ogni dramma umano è dramma universale, che dalla cellula familiare e dal microcosmo privato, principio di ogni cosa, si può trarre una lezione generale: tutta questa variegata galassia di personaggi totemici femminili è portatrice di una forma e una forza d’amore peculiare, che sia per i figli, per il lavoro o per l’umanità, senza punti di contatto con i modelli stereotipati a cui siamo abituati.




Proprio di questo slancio di vita, d’invito alla vita e alle manifestazioni dell’io – che il sacrificio di John Donovan ha in qualche modo innescato, nel pubblico e in Rupert –, oltreché dell’alternanza del punto di vista, rende forse ragione il titolo originale inglese che sfoggia un elegante hysteron proteron (The Death and the Life of John F. Donovan) e che le traduzioni francesi e italiane non hanno evidentemente compreso (Ma vie avec John F. Donovan; La mia vita con John F. Donovan). È la lezione più significativa, mi pare, che ci lascia il maestro della fragilità dei tessuti sociali umani e della negazione filosofica di una verità assoluta e razionale.

 

Monica Battisti

 

Titolo originale | The Death and the Life of John F. Donovan

Regia | Xavier Dolan

Anno | 2019

Cast | Kit Harington, Nathalie Portman, Susan Sarandon,  Jacob Tremblay

 

 

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