La mafia uccide solo d’estate
A Palermo c’è uno slargo, all’incrocio fra due vie principali del centro, chiamato “i quattro canti”. Qui fanno angolo quattro palazzi secenteschi, costruiti simmetricamente su tre ordini: al primo livello di ogni edificio c’è una statua allegorica delle quattro stagioni, al secondo quella di un re spagnolo, mentre all’ultimo livello c’è la statua di una santa protettrice della città.
Se ci si mette al centro dell’incrocio e si comincia a girare su se stessi guardando i palazzi, quasi subito si perde il senso della realtà, non si riesce più a distinguere il nord dal sud, la statua della primavera da quella dell’inverno, santa Cristina da sant’Agata.
Quando però ci si ferma, il mare è sempre là, in fondo a via Vittorio Emanuele, ad indicare la strada.
Qualcosa di metaforicamente simile è avvenuto a Palermo – e, più in generale, in Sicilia – durante gli anni delle guerre di mafia e delle stragi di Cosa Nostra: troppo spesso la gente viveva la propria quotidianità come se girasse in tondo, senza accorgersi di quello che succedeva appena dietro l’angolo, o pretendendo di non vederlo, nella finta illusione che la mafia fosse un fenomeno circoscritto e lontano dalla quotidianità di una vita ordinaria.
Non c’era una chiara percezione della realtà delle cose, pochi erano in grado (e avevano il coraggio) di riconoscere alla mafia il suo ruolo. La morte di Falcone e Borsellino ha segnato un punto di rottura in questo schema, risvegliando finalmente le coscienze e innescando un processo di ribellione e volontà di cambiamento.
“La mafia uccide solo d’estate”, film d’esordio di Pierfrancesco Diliberto (per tutti Pif, già assistente di Marco Tullio Giordana nel film “I cento passi”), racconta con sensibilità e intelligenza questo clima di omertà e sottovalutazione del fenomeno mafioso, e lo fa attraverso la storia di Arturo, giovane palermitano come tanti, non direttamente coinvolto con Cosa Nostra, ma che, dalla nascita all’età adulta, vede più volte la sua vita intrecciarsi con eventi provocati dalla mafia.
Il film adotta un registro a metà tra la favola e il romanzo di formazione. Nella prima parte lo sguardo del protagonista è quello innocente del bambino, che, come in ogni favola, fa ricorso a degli aiutanti per raggiungere il suo scopo (in questo caso conquistare Flora, la compagna di classe per cui si è preso una cotta). L’elemento comico e dissacrante è dato dal fatto che Arturo sceglie come aiutante Andreotti, affidandosi alle sue dichiarazioni non solo per conquistare Flora, ma anche per interpretare i fatti che vede accadere intorno a sé. Negli adulti a lui vicini, infatti, non trova risposte esaurienti: di fronte ai suoi timori e alle sue domande, il padre sa rispondere solo vagamente. È lui a dire che “la mafia uccide solo d’estate”, che non bisogna preoccuparsi.
Le cose iniziano a cambiare con l’entrata in scena di un secondo aiutante, il giovane giornalista che vive nella casa del nonno e che lentamente fa capire ad Arturo che la realtà è più complicata delle apparenze, che bisogna saper scegliere le fonti su cui fare affidamento.
È qui che la storia perde le connotazioni della favola e diventa racconto di formazione: Arturo, messo di fronte alla realtà degli assassinii di Dalla Chiesa e Chinnici e all’inadeguatezza del comportamento di Andreotti, è costretto a crescere, a formarsi delle opinioni proprie.
Nonostante la serietà del tema trattato, Pif riesce a realizzare il film con una leggerezza che non è superficialità, alternando il comico al drammatico senza mai scivolare nella retorica.
“La mafia uccide solo d’estate” non è la solita storia dove i poliziotti buoni sparano ai cattivi e dove i mafiosi indossano la coppola e hanno una lupara sempre sotto braccio. Tutt’altro. È un film che riesce a far ridere della mafia, smontandone l’aura di sacralità e timore con la quale di solito viene rappresentata: c’è Totò Riina che non riesce a capire come funziona il telecomando dell’aria condizionata e Leoluca Bagarella che ritaglia dai giornali le foto di Ivana Spagna, di cui è innamorato.
L’ironia che pervade il film, tuttavia, non impedisce alla tragedia di irrompere sulla scena attraverso le morti di tanti uomini che si impegnarono per combattere la mafia e per questo furono uccisi.
Commuove specialmente la scena finale, con Arturo divenuto papà che porta suo figlio in giro per Palermo, in un sorta di viaggio della memoria per ricordare le vittime della mafia, per insegnare a un bambino a riconoscere il bene dal male e per risvegliare l’impegno civile di tutti.
Uniche due pecche del film: la voce fuori campo del regista, ingrediente immancabile nel programma televisivo di Pif “Il testimone”, che però qui risulta un po’ troppo didascalica e appesantisce una narrazione di per sé fluida, e l’interpretazione non proprio brillante di Pif stesso nel ruolo di Arturo adulto, anche a causa del trucco che non riesce a ringiovanirlo abbastanza da risultare credibile.
Regia: Pierfrancesco Diliberto (Pif)
Anno: 2013
Cast: Cristiana Capotondi, Pif, Ginevra Antona, Alex Bisconti, Claudio Gioé
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