La Lozère, il Molise della Francia
Sopravvivono ancora, nel cuore d’Europa, nell’angolo più remoto dell’Occitania francese, dei luoghi dove la tradizione contadina non è mai stata intaccata. Si è, semmai, solo adeguata ai tempi, restando radicata negli usi, nei costumi e negli approcci. Signore e signori, anzi, mesdames et messieurs, voilà la Lozère. Il Molise della Francia (ci scusino gli abitanti di Campobasso e Isernia). Conosciuta un tempo come Gévaudan, questa regione è forse uno dei luoghi meno popolati e più incontaminati dell’esagono francese (se fingiamo che l’allevamento non sia una forma d’inquinamento, scusaci Safran Foer). Lontana da tutto e da tutti, soprattutto dagli aeroporti. Provate a noleggiare una macchina all’aeroporto di Lione dicendo che dovete andare in Lozère. “Seriously???” è la domanda più carina che potete sentirvi rivolgere.
Distese di conifere, quindi. Mandrie allo stato brado e vita contadina. Un luogo dove piccole fattorie a conduzione familiare e villaggi fortificati come il Villard (nomen omen, che qui è gente pratica) si alternano a chilometri e chilometri di intaccato nulla. Un luogo dove è ancora possibile capire cos’è davvero il silenzio, un luogo dove la precedenza devi darla a destra ma pure a sinistra se una mucca decide che è il momento giusto per attraversare la strada e, ancora, un luogo dove, la sera, puoi seguire con lo sguardo il percorso della via lattea senza alcuna forma di inquinamento luminoso. D’altronde, qui, le “città” principali hanno poche migliaia di abitanti (Mende, Chanac…). Si vive in paesini dall’aspetto bucolico con case in pietra a vista, strappata dai costoni rocciosi dei monti.
Conifere, quindi freddo. Freddo l’inverno, quello di una volta. Non ci sono barriere naturali e il vento può spazzare questi luoghi. Ed è lo stesso vento che ha portato fin qui tutti quei pini dalle non troppo lontane montagne. E’ così che a poche centinaia di metri di altitudine il paesaggio è già prealpino. Fresco l’estate, la sera.
Gli abitanti della Lozère, gente pratica e non eccessivamente cerimoniosa – se rapportata alla media dei loro connazionali – hanno un eccezionale senso dell’ospitalità e una tendenza alla cucina non esattamente minimal. Potremmo definirla “concettuale”, piuttosto. Se non, addirittura, “consequenziale“. Per farne un’adeguata conoscenza, c’è un luogo che non compare sulle mappe, che è raramente raggiunto dall’ombrello del 3G e che ha un limite di velocità a 20 chilometri orari, non tanto per la presenza di bambini quanto per la presenza di conigli e altre bestioline – che le famiglie di umani qui son talmente poche che sul segnale “pericolo attraversamento infanti” potrebbero direttamente scrivere “attenzione che qui attraversano Julie e Victor”…
Benvenuti alla Ferme Auberge du Montet. Una sorta di fattoria, b&b, ristorante. Per gli amici “agriturismo” ma i francesi sono troppo (adorabilmente) snob per avere un’adeguata traduzione di questa parola che semplificherebbe la comunicazione. La conduzione, a occhio, è decisamente familiare e speciale. Una volta esaurita tutta la bibliografia possibile per le vostre vacanze infatti, non resta altro da fare che mangiare. Si comincia presto con la colazione. Le petit-déj. Mind the coffee come un qualsiasi gap della metro londinese: molto meglio il té. Su quello i francesi non possono fare danni. Dopodiché lasciatevi coccolare dal vassoio delle marmellate (confiture). Lize, la donna che gestisce il ristorante, lascia sul tavolo una forma di burro da 250gr ogni 3/4 persone, pane in modalità all-you-can-eat e decine e decine di vasetti di marmellate fatte in casa. Consistenze variabili e gusti veramente eccezionali.
Le sere d’estate, di solito il venerdì, in barba alla tradizione cristiana del magro e del digiuno, i gestori indossano i guantoni da fuochista delle grandi occasioni e danno il meglio di sé. E’ l’animazione porca (traduzione letterale di “animation cochon“, come la chiamano loro. Ognuno, in fondo, ha le sue attrazioni). Non ce ne vogliano i vegetariani, insomma. Sul fuoco gira un maialino pronto a sfamare tre tavolate da 30 persone l’una. La modalità conviviale è la stessa di Cecchini in Toscana ma l’approccio è un po’ più rudimentale. A lato del focolare, invece, in un sobrio calderone di un metro e mezzo di diametro, Lize mescola l’aligot. Formaggio, patate schiacciate e aglio che vengono mescolati insieme fino a formare una sorta di crema pastosa e filamentosa. Parallelamente, in un altro forno, viene cucinato il pane. Lo stesso che poi, il giorno dopo, ci si ritroverà sul tavolo a colazione.
Spoiler: dopo una certa ora improvvisamente i tavoli di solito si uniscono in cantate brille sfidandosi sulle note della tradizione. Nel caso di chi scrive ci si è trovati a sfidarsi su “La Marsigliese” vs “Volare” o “Ti amo” di Tozzi.
Eccola, la vera esperienza dell’entroterra francese.