Dio, fatti valere, distruggi i giardinetti
curati e fioritissimi. Vieni, foresta!
E amor ne beva
quanto versa Adon di sangue. E tutto
in terra divien fiore
Bione di Smirne
È all’incirca il 1945. Calpestiamo la polvere di un piccolo villaggio sospeso tra la montagna ed il mare, Qassabin, nel nord della Siria. Un ragazzetto smunto di quindici, sedici anni torna a casa sconfitto, battuto: e noi con lui. Tutte le riviste alle quali ha mandato le sue prime poesie gliele hanno restituite, tutte rifiutate. Torniamo a casa calpestando la polvere, tirando calci alle pietre, spaventando tre cani randagi.
Alī Ahmad Sa’īd Isbir cambia nome, quel giorno: diventa, rinasce “Adonis“, Adone.
Lungo la strada del ritorno cammina un ragazzo umiliato, cammina e sbanda e digrigna i denti pronunciando quel nome Adone Adone Adone, pronunciandolo colle lacrime agli occhi. Questa è la storia di un bellissimo dio di Babilonia e di Siria, Tammuz – Adone, per i Greci – di cui si innamorò persino la dea dell’Amore. Un dio che nacque da un albero e divenne divinità della Bellezza e della Caccia, divinità della Fertilità, della Rinascita. Un dio che fu ferito a morte da un cinghiale, forse mandato da Apollo per gelosia o forse da Ares, e dal cui sangue versato nacquero fiori, anemoni rossi.
“Dopo aver detto questo, Venere versò nettare profumato sul sangue […] Non passò più di un’ora che spuntò un fiore del colore del sangue, come quello della melagrana che cela i suoi granelli sotto la flessibile scorza. Non lo si può però godere a lungo. Non è bene attaccato al suo stelo ed è talmente leggero che tende a cadere e facilmente lo strappano i venti da cui deriva il nome.” (da Le Metamorfosi, Ovidio, trad. G. Faranda Villa)
Quel cinghiale rappresentava, per Alī, le riviste che lo avevano rifiutato. Sotto la nuova firma d’Adone, le poesie gliele accettano tutte ed è tanto lo sgomento lo stupore quando a presentarsi in redazione è un ragazzino magro, malvestito – accartocciato su se stesso ma sicuro di sé sotto quel nome da dio – che nessuno riesce a dire più niente.
“La sua casa –
quanto ho sperato fosse aperta,
senza battenti, mura o colori,
quanto ho sperato fosse come un campo
il letto terra e erba,
i guanciali margherite.”
Dopo aver studiato Filosofia all’università di Damasco, Adonis è costretto a trasferirsi in Libano, perché perseguitato politico: dopo quasi un anno di prigionia e di tortura, è tempo di rinascere ancora.
Beirut sembra il luogo perfetto per questa invincibile “araba fenice”: come racconta egli stesso in un’intervista a Robin Creswell – “The Man Who Remade Arabic Poetry”, The New Yorker – Beirut divenne, negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, il centro della vita intellettuale di tutto il mondo arabo, usurpando quello scettro che fino a poco tempo prima era appartenuto indiscutibilmente al Cairo.
Beirut fu per lui un place to be, per usare le parole di Nick Drake: fu tempo e luogo di intensa attività poetica e intellettuale. Qui fondò diverse riviste di poesia, e cominciò a costruire la sua poetica, fatta di libertà nostalgia e sensualità, per cui ha oggi fama in tutto il mondo. Una poetica fatta di cammini, di foreste, di corpi amanti.
“Dall’alba dei nostri corpi all’oscurità del tramonto
la terra legge in noi la sua eco e le sue tracce,
si cantano cammini,
si percorrono cammini.
Non conto gli uccelli che sfilano
e domandano: da dove si viene
ai nostri spazi?
Non conto le regioni che si riproducono
folli di confidenze
in loro e in noi.”
Nel 1975 scoppia in Libano la guerra civile e ripetute ondate di violenza e di fanatismo pongono fine alla “Belle Époque” di Beirut: per Adonis è tempo di un nuovo esilio, e di una nuova rinascita. Questa volta il rifugio sarà Parigi.
In un’intervista di Laura Allsop – “A Life in Language”, Ibraaz – Adonis affronta così il tema dell’esilio: “Ho una concezione dell’esilio diversa da quella oggi prevalente, che considera l’esilio per lo più nella sua dimensione geografica. Io lo considero, al contrario, una dimensione interiore. Certamente quello che accade all’esterno può acuirla oppure lenirla, a seconda dell’esperienza del poeta. Eppure non credo che un vero poeta non nutra dentro di sé un profondo senso di esilio interiore, ed è proprio ciò che accade con il linguaggio, con la parola: perché la parola è per il poeta la sua casa e al tempo stesso il suo ineludibile esilio. È la sua casa perché il poeta non può che cercare e trovare se stesso nella parola, in essa soltanto. Ed è il suo esilio perché, inevitabilmente e invariabilmente, la parola fallisce nel dire ciò che egli desidera dire.
Esiste una realtà visibile, esiste il viso di lei o di lui, il suo corpo, esistono i suoi gesti. Ma al di là di tutto questo esiste anche un’altra realtà, stupefacente, che è più profonda, più ricca e spesso totalmente sconosciuta: e proprio questo continuo passaggio dal visibile all’invisibile è una forma di esilio, perché nel cercare l’invisibile, nel cercare di comprenderlo, tu ti costringi per sempre all’esilio. ”
“Nostro amore –
dovremmo coniugare le foreste
all’aria che freme in loro –
carezza le montagne e le pianure che
si stringono attorno a lui e a lei.
Nostro amore – scala che sale e scende
da splendore e rivelazione.
Dovremmo illuminare le nostre orbite,
illuminare lo spazio
con le sue leggende.
Dovremmo obbedire alle lontananze in noi,
ai deserti,
vedere tutto ciò che il cielo non vede.”
Adonis fu accusato da fanatici e nazionalisti di non conoscere e di tradire la tradizione della poesia araba, di sporcare la lingua araba per dare voce ad uno spirito europeo. Per rispondere a queste accuse ha dedicato più di dodici anni della sua vita allo studio esclusivo ed intenso della poesia e della filosofia arabe, per comporne antologie che dimostrassero quanto l’intera cultura araba sia abitata da un’imperitura tradizione di dissidenti che si sono opposti all’ortodossia;
che dimostrassero che non esiste una tradizione unica ed unita, ma che molti passati compongono il comune passato;
che dimostrassero l’esistenza di una identità comune mediterranea e stratificata: proprio quella culla identitaria panmediterranea in cui è nato il mito di Adone.
“Lui é della stessa sostanza della natura.
È udita la voce in tutta la sua musica
dal genere del tuono alla canzone
che canta il dolce alato della notte.
Lui é una presenza che va sentita, conosciuta
nel buio e nella luce, dall’erba e dalla pietra
che si sparge ovunque dove agisce il Potere
che ha tutto in sé il suo essere
che governa il mondo con un mai esausto
amore, che lo sostiene di sotto e di sopra
lo incendia.”
da “Adonaïs. Elegia in morte di John Keats”, Percy Bysshe Shelley
Ho letto le poesie di Adonis nella mia piccola stanza, in cucina e qualche volta in treno, per una sera intera in piedi ad un angolo di strada mentre aspettavo che arrivasse qualcuno da destra. Le ho lette in città, con l’odore il rumore del tram che m’immalinconiva ogni volta che sapevo ch’era proprio il 16 a passare: le ho lette sempre in città.
Un ramo di oleandro si è finalmente sporto sul mio letto, una sera. Un uccello ha nidificato sotto il cuscino. “Qual è il tuo nome in / questo / istante?” Fioriscono le mie lenzuola e in disordinati giardini si trasformano i pavimenti. Mi sono messa in cammino.
(Le due meravigliose illustrazioni – sulla copertina del libro e sulla copertina del nostro articolo – sono di Andreas Lie )