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La fine del mondo inizia a Bobbio | La Festa Nera, Violetta Bellocchio

Non abbiamo un piano, non abbiamo un’azione definita. Dovesse andare male avremo un quarto d’ora di Misha che vagabonda per un centro storico bombardato e chiede, c’è nessuno?

Nel racconto Danze di guerra di Sherman Alexie il protagonista non ci sente da un orecchio e questo basta per convincerlo di avere uno scarafaggio di kafkiane dimensioni in qualche punto non ben precisato del condotto uditivo mentre osserva suo padre alcolista nel letto d’ospedale. Durante questo momento che vorrei smettere d’immaginarmi, Alexie fa dire al suo protagonista che quando un nativo americano cresciuto in riserva muore di alcolismo quella dovrebbe essere considerata morte per cause naturali. Riduciamo tutto all’osso e diciamo che il problema è la nostalgia, la vecchia pessima storia di ciò che ti regala quello che lasci indietro ovvero un blob di notevoli dimensioni composto in egual misura di acidi biliari, Dalmadorm e Kleenex balsam fresh al mentolo. Quella cosa – non importa che te l’abbia portata via qualcuno o se ne sia andata con le proprie gambe vere o metaforiche – non ce l’hai più, e non sto parlando di sentimentalismo, sto parlando di amputazioni.

Ma la nostalgia non esiste solo per le cose che ti lasci alle spalle, la nostalgia esiste anche per ciò che lascia te, alle spalle. La nostalgia per quello che arriva dopo di te. Il post apocalittico, ad esempio. Il post apocalittico, sì, tabula rasa, il foglio bianco, la prima boccata d’aria pungente dopo settimane-mesi-anni-vite di metro gialla, la consapevolezza che se solo avessi occasione di farne parte saresti finalmente costretto a prendere una posizione. Il fascino di prendere per la prima volta una posizione quando ti ritrovi ad essere uno dei pochi che sono rimasti e lo stare al centro della scena darebbe troppo nell’occhio e dare nell’occhio non è sicuramente una buona idea nell’anno 1 della post apocalisse nel quale ora ti trovi e dove già vedo i gloriosi sopravvissuti girarti intorno tanto spaesati quanto incazzati insomma un po’ come fanno tutti i Cocker Spaniel quando hanno fame.

Sei mesi fa c’è stata la fine del mondo.

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DISCLAIMER: La collocazione temporale è il futuro prossimo quindi dovreste leggere il romanzo, a mio avviso, come un avvertimento, ma questo non significa che ci sia tempo da perdere. Immaginate di star camminando verso casa e qualcuno all’improvviso quasi senza alcuna ragione apparente comincia a pungolarvi l’incavo della schiena con una mina HB, all’inizio è quasi un solletico ma dopo pochi secondi un riflesso innato vi fa cominciare a correre, sempre più veloce, fino al collasso. A saperlo prima, uno cambiava strada, finché era in tempo. Di sicuro, arrivato a questo punto, non può più dire di non essere stato avvertito.

Comincia La festa nera, siamo nella fredda era dello shaming dove ogni azione è vista, metabolizzata e contestata dagli occhi e dalle bocche della pubblica piazza e soprattutto dai 257 DM che rimarranno per tutti i secoli ancora esistenti nella cartella dei messaggi mai letti. Un urlo gracido soffocato sul nascere.

Nel post apocalittico che invade l’Italia – siamo finalmente testimoni del fatto che non siano necessari i grattacieli per ambientare una tragedia atomica, finalmente accorciamo le distanze, lunga vita all’immedesimazione facilitata – 3 giovani si occupano di cultura e nel post apocalittico nel quale ormai siamo la cultura si dice sia in mano a chi ha parecchio tempo da perdere. Non è qualcosa di cui andarne fieri, non è qualcosa che passa inosservato.

L’apocalisse è nemica del sovraffollamento urbano e ora, il vostro minimale e nomade nucleo familiare è composto da 3 persone – come nella più sacra delle famiglie anch’essa girovaga per necessità, a suo tempo – e tocca a voi ripartire per documentare quello che è rimasto. Siete dei documentaristi, lavorate con le immagini, cercate testimoni grazie ai quali confermare la contemporanea convinzione che dice: Le immagini hanno tutto il potere. Siamo degli guardoni patologici, per questo temiamo il vuoto, l’eco, per questo facciamo chilometri per parlare con qualcuno ma soprattutto per vederlo.

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Noi facciamo documentari. Filmiamo il reale in tempo presente. La nostra specialità è tutto quanto sta all’incrocio tra lo strano, il triste e lo scuro.

Ali, Misha, Nicola, sono questi i protagonisti de La festa nera, il reportage che li porterà lungo la statale 45 che collega Piacenza a Genova, territorio conosciuto come Val Trebbia e ospitante le 5 comunità all’interno delle quali chi è riemerso dalle ceneri dell’apocalisse ha deciso di schierarsi per darsi la possibilità di un nuovo inizio, con delle nuove regole da seguire e da far applicare. Quello che compiono è un variegato, maldestro – e allo stesso tempo maniacalmente organizzato – ritorno alle origini. Il movimento parte sempre dall’esterno verso il centro, non sempre lo raggiunge.

L’ultimo mezzo che abbiamo incontrato, a Bobbio, era un quad senza le ruote anteriori, un umone in salopette cercava di trainarlo fuori da un fosso.

Bobbio come Middlesex.

Dotati di telecamera e con l’obiettivo di intervistare i superstiti, i 3 incontreranno la confraternita del serpente nero, ovvero un gruppo di uomini isolazionisti sempre più convinti che la donna sia un virus dal quale prendere le debite distanze, madri che venerano ogni forma di dolore, riconoscendolo come unica verità esperibile, i ragazzi alternativi di Secondo Zion, che disprezzano la tecnologia, il progresso – nulla di ciò che è lecito possedere può essere fabbricato dopo il 2015 – una comunità di famiglie integraliste nella quale sono in vigore l’assoluto controllo e l’implacabile obbedienza come metodi educativi e, infine, la Luna Nuova, luogo di rievocazione pagana nel quale incontrare “Il Padre” (non-è-quello-che-sembra) in grado di curare qualsiasi male fisico, qualsiasi esperienza traumatica. Può dunque un sabba far ripartire il mondo?

Lo charme dell’apocalisse è molto potente in certe fette di umanità.

Per chi se lo fosse chiesto, quindi, la risposta è no: la distopia non è morta.

La festa nera di Violetta Bellocchio ne è un esempio vivo, superstite, un magnetico tentativo di voltare le spalle al mondo civilizzato dissezionando tutti i nostri bug culturali, i nostri passi falsi. Ed ha abbastanza consapevolezza e perspicacia per dirci dove ci porterà ogni strada che abbiamo da tempo intrapreso.

Anche noi siamo spaventati, curiosi, cicatrizzati come i 3 cavalieri della post apocalisse, e vedere i risultati delle nostre azioni attraverso i loro occhi – di qualche anno in vantaggio sui tempi – è tanto allarmante quando rassicurante. Essere consapevoli che si possa fare qualcosa, che si possa smettere di guardare, almeno per un attimo.

Ciò che si racconta è la fine dell’inizio, l’ennesimo inizio, l’ennesima falsa partenza, come nel Drive-in zombie spaziale di Lansdale ma con meno dispersione di succhi gastrici e inoltre, durante la lettura, si ha la chiara sensazione che ogni cosa descritta ne La festa nera potrebbe davvero succedere, un feroce realismo di cui le nostre azioni sono assolutamente capaci.

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Anzi, qualcosa da qualche parte sta già succedendo e per un relativista questo vuol dire che è come se stesse succedendo anche qui e un po’ dovunque.

La festa è finita, ma forse c’è ancora spazio per qualcos’altro.

Guardo il cielo, le scie degli aerei, ed è qui che mi lascio andare a un vertiginoso, allettante, inevitabile errore: io penso che ce la stiamo facendo. Alla fine andrà tutto bene. Anche se dicono che la canzoncina di prima, con il suo pianoforte e il suo basso, se la ascolti da solo in una casa vuota, attira un gruppo di sconosciuti con le maschere da animale che ti buttano giù la porta e ti ammazzano. È una leggenda, ma alle leggende si dovrebbe stare attenti.

Titolo | La festa nera

Autore | Violetta Bellocchio

Editore | Chiarelettere

Anno | 2018

Pagine | 167

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