La ferita della coscienza

La ferita della coscienza


Il funerale e la morte di Ariel Sharon, ex primo ministro israeliano, all’inizio di gennaio, hanno scatenato commenti contrastanti sulle più importanti testate mondiali e italiane. I giornalisti devono provare a dare una
interpretazione dei fatti, non un racconto, per cui le risposte diametralmente opposte alla morte di Sharon erano attese, per diversi ordini di ragioni. Innanzitutto è difficile scindere l’uomo dal politico: è morto un uomo, che, però, è stato primo ministro e generale dello stato di Israele e probabilmente (in)direttamente implicato in fatti incresciosi di storia più o meno recente, fra cui il massacro di Sabra e Shatila. Oltre al cordoglio (quando si muore, si è tutti brava gente), si sono letti articoli di fuoco sul passato del leader politico. Questa distinzione, però, non spiega se non in parte l’ambivalenza dei giudizi. La verità, a mio avviso, è che ancora oggi Israele (lo stato, il popolo e la storia) rappresenta la coscienza sporca dell’occidente (USA e Europa).

Non sarebbe altrimenti semplice spiegare la condanna unanime alle poche e maldestre parole del regista Lars Von Trier a Cannes 2011 (gli ebrei sono “a pain in the ass”) alla presentazione di Melancholia, che ha portato gli stessi commentatori delle stesse testate italiane e internazionali a criticare duramente il regista, fino a bocciare tutto la sua carriera registica. Ricordo il commentatore di Repubblica che inveiva sulle pagine del giornale, sostenendo che “loro l’avevano detto” che era un filonazista, oltre che misogino, e che traspariva chiaramente dai suoi film. Un mare di sciocche fandonie, altresì dette cazzate.

Parole decisamente più forti sono quelle che negli ultimi anni sta usando il comico francese Dieudonné M’bala M’bala, che è riuscito con abile mossa pubblicitaria (volente o nolente) a risaltare agli onori delle cronache mondiali per le sue invettive antisemite, che piacciono tanto ai partiti di estrema destra europei (sì, esistono ancora). Ancora una volta la razionalità si trova spaccata fra quella che è, a tutti gli effetti, una offesa razziale e una libertà di opinione e espressione sempre vagheggiata e poco applicata. Non suscitano altrettanto scalpore i testi altamente misogini dei rapper americani (dove la donna, nella migliore delle ipotesi, è “bitch”), né tantomeno le invettive contro la popolazione americana afroamericana di tanti cantanti country che sostengono la supremazia della razza bianca (in maniera francamente demodé, oltre che anacronistica e un po’ invidiosa).

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La coscienza sporca dell’occidente si fa sentire ed assume queste forme: nei ritorni periodici all’odio razziale e nella mancanza di lucidità nella valutazione dei fenomeni ad essa legati. Proprio per provare a lavare questa macchia, è stata istituita la Giornata della Memoria, che tutti conosciamo per averla “festeggiata” al liceo, ma che troppo spesso in esso si conclude, accompagnata da patetiche maratone cinematografiche, su cui il buonismo americano alla Benigni troneggia. Siamo abituati a relazionarci ad essa come al ricordo dell’olocausto e delle vittime del nazismo; a relegarla, cioè, in qualcosa che riguarda il passato. E che non tornerà mai più. Al contrario, dovrebbe essere un perenne monito per il presente ed il futuro.

La giornata della memoria potrebbe essere il punto di partenza per capire la ferita dell’Occidente e la Storia recente, a partire dalla fondazione dello Stato di Israele. Dovremmo, però, sfrondarla di ogni pietismo, eliminare i violini yiddish ed i cappottini rossi. Questo non significa dimenticare, ma usare il ricordo come base di una conoscenza, senza lasciarci trasportare dall’emotività, imparando la lezione che Ferruccio Neerman ci suggerisce nel libro autobiografico Infanzia Rubata. Quello che è stato è stato: usiamolo per capire quello che è e quello che sarà. Una lezione difficile da apprendere, come si evince dagli esempi che ho riportato, oppure dai troppi ragazzi che indossano la kefiah per partito preso, senza capire, come indosserebbero la maglietta del gruppo musicale preferito. La Memoria deve essere il mantra che guida il nostro ragionamento, per capire ciò che ci circonda, come un leitmotiv ripetuto nelle grandi opere liriche, come aveva il testa il maestro Nicola Piovani nella composizione della colonna sonora de La vita è Bella. Solo così è possibile capire il mondo che ci circonda. La Memoria non è una giustificazione, né un preconcetto, quanto piuttosto un filtro per leggere il presente. Anche Israele ha fatto errori e non tutti gli attacchi ad Israele sono antisemiti; bisogna prima di tutto capire dove nasce questo “vulnus”. Tendiamo, invece, a sentirci attaccati, ogni volta che si parla di queste cose, dal momento che, come Occidente, ci sentiamo responsabili (e forse ancor di più, colpevoli) per quello che è accaduto durante la Seconda Guerra Mondiale e per quello che abbiamo lasciato accadere, o avvallato, nei decenni a venire. Questo ci impedisce una valutazione oggettiva dei fatti, che ci porta all’intransigenza morale verso coloro che “attaccano” la popolazione ebraica o la Memoria di questa; al contempo, però, è questa intransigenza detta dalla parzialità che permette il ciclico ripresentarsi di fenomeni d’odio più o meno radicato e mascherato.

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Come ci insegnano gli alieni di Tralfamadore, in Mattatoio 5 (libro e film), non possiamo considerare il passato come un’isola, lontana da noi e da noi scollegata. Il tempo altro non è che un insieme di istanti, dove ciò che è stato si mescola a ciò che sarà e solo facendo nostri questi istanti potremo recuperare quella lucidità smarrita nella valutazione della Storia.

Alessandro Pigoni

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