La Cosa da un altro mondo
La Guerra Fredda, come è noto, non coinvolse solamente politica ed eserciti, ma permeò per alcuni decenni una moltitudine di settori differenti. Le due maxi potenze contrapposte, USA ed URSS, gareggiavano su qualunque campo, con l’intento di dimostrare una superiorità di metodo e di condotta; la letteratura ed il cinema furono, fra gli altri, alcuni di questi campi di scontro. Questo continuo contrapporsi, lungi dal dimostrare una superiorità, ha sicuramente avuto il pregio di svelare le grandi differenze culturali fra i due modi di pensare ed i differenti metodi di approccio ad un medesimo problema.
Esattamente come la corsa allo spazio ed alla luna, la letteratura ed il cinema di genere fantascientifico ebbero il loro periodo di massimo splendore proprio in questi decenni, a partire dagli anni ’50, e videro contrapposte più che ideologie, veri e propri modelli di pensiero, capaci di riflettere quanto di più radicato ci sia in una cultura, spesso superando l’ideale politico della Guerra Fredda stessa. Da un lato, dunque, la fantascienza americana si rivolse all’esplorazione di nuovi mondi e nuove razze, alla ricerca spasmodica di capire pensieri diversi dai nostri anche nella maniera in cui sono pensati; di porsi, dunque, come metro di paragone di quella che doveva definirsi una conquista dello spazio, non necessariamente fisica e belligerante, ma almeno conoscitiva. Dall’altro lato la fantascienza russa declina lo spazio e soprattutto l’incontro con specie di altri mondi partendo dalla totale inconoscibilità da parte dell’essere umano. La piramide scintillante de “La sentinella” di Arthur Clarke viene prima scoperta e poi aperta, così come Marte viene colonizzato, nonostante molte difficoltà, nelle “Cronache Marziane” di Ray Bradbury. Al contrario, il pianeta Solaris prova a comunicare con noi interpretando i nostri desideri, ma l’uomo non capisce perché lo faccia e come, nel capolavoro di Stanislaw Lem; i residui del “Picnic sul ciglio della strada” dei fratelli Strugatzki, poi, vengono collezionati, classificati e addirittura utilizzati, senza però sapere cosa realmente rappresentino e per quale ragione siano stati abbandonati nelle Zone, da visitatori che non si sono degnati di mostrare altrimenti la loro presenza.
Due approccia diametralmente opposti al medesimo problema: da un lato la sottomissione intellettuale all’uomo misura delle cose, dall’altro la totale incapacità di ridurre a concetti ed immagini umane ciò che proviene da altrove.
Nel cinema si delinea la stessa inconciliabile dicotomia, ma portata alle sue estreme conseguenze, se possibile, dal più importante regista russo del dopoguerra, Andrej Tarkovskij. La sensibilità del regista russo ed la sua attenzione all’atmosfera ed all’ambiente, capaci di rispecchiare l’interiorità dei personaggi, vengono magistralmente utilizzati per dirigere gli adattamenti di “Solaris” e “Stalker” (Picnic sul ciglio della strada). La cifra stilistica che già lo aveva caratterizzato con “L’infanzia di Ivan” e con “Andrej Rublev”, lontana dalla celebrazione epica ma altrettanto distante dal realismo, ha la possibilità di esplodere nella resa dei due capolavori di fantascienza. L’ambiente in cui i protagonisti si muovono è sempre fondamentale, perché specchio dell’animo dell’uomo stesso eppure al di fuori del suo controllo. La base spaziale sospesa su Solaris su cui sale l’astronauta Kris Kelvin è lontanissima dall’ordine ossessivo di Kubrick in “2001: Odissea nello spazio”, ma anche dalle astronavi di “Star Wars”, che uscirà pochi anni dopo. La base di Solaris è arrugginita, ingombra di rottami che “crescono” come erbacce ovunque, cavi elettrici, porte rotte. L’uomo non è totale padrone del suo spazio, ma anzi lo subisce. E l’ordine che prova a mettere nella base è lo stesso che prova a mettere, invano, dentro di sé. Lo stesso Kelvin, interpretato da Donatas Banionis, è quanto di più lontano dall’ideale di astronauta: lievemente sovrappeso, brizzolato, con lo sguardo dolente del filosofo o del poeta: appena scende dalla nave che lo ha condotto alla base di Solaris cade, inciampando nei laccia dei suoi stessi stivali.
Il pianeta Solaris è in grado di materializzare i desideri degli uomini, tanto da materializzare la ex moglie di Kelvin, morta suicida dieci anni prima. Impossibile sapere perché lo faccia o provare a fermarlo. Così Kelvin impara a convivere con la “nuova” moglie, fino alle estreme conseguenze. Tarkovskij tralascia gran parte della dissertazione filosofica e matematica sul mondo di Solaris, presente invece nel libro, per concentrarsi sull’interiorità dei suoi personaggi. Solaris non viene descritto e viene visto pochissimo, solo attraverso le finestre della base spaziale, da cui guardano Kelvin e Hari, la bellissima Natal’ja Bondarčuk. Manca totalmente la descrizione delle montagne che si materializzano dall’oceano, delle strutture solide che questo può creare. Per Tarkovskij l’esterno è solo una proiezione di ciò che esiste all’interno dell’uomo e guardare il mare del pianeta alieno, senza capirlo, equivale a guardare dentro di sé, parimenti senza capirsi.
L’inconoscibilità impossibile nei confronti di ciò che viene da “fuori” è la stessa dell’attenzione rivolta verso l’interno. Siamo alieni a noi stessi, incapaci di conoscerci. L’uomo tarkovskiano non è capace di capire i desideri ed i sentimenti con cui convive e spesso vive nel ricordo, che viene materializzato dal pianeta. Così come nei successivi “Lo Specchio” e “Nostalghia”, il ricordo si coagula intorno al nucleo familiare, alla dacia che lo contiene ed alla campagna russa. Il regista parla del ricordo della vita felice, trasfigurandolo completamente nella propria memoria, forse anche grazie all’esperienze di esilio dall’URSS, a dimostrazione che il pensiero culturale russo e la politica non sempre vanno d’accordo.
L’utilizzo alternato del colore e del bianco e nero sono funzionali a dividere due piani di realtà. Kelvin vive nel ricordo e ciò che per lui è reale, a colori, vivido, è la dacia della sua memoria, che non combacia necessariamente con quella attualmente abitata dai vecchi genitori. Il resto della città e del mondo che lo circonda e anche alcune parti di questa stessa casa, non sono per lui reali, ma sbiaditi come un vecchio film. La nuova compagna creata da Solaris è, invece, reale, ad ulteriore dimostrazione che il suo mondo interiore non coincide col mondo reale. Tutta la base spaziale, dotata di una grande biblioteca tutta in legno, dove gli astronauti possono conversare vestiti con abiti eleganti, sembra creata ad arte. Come se i protagonisti vivessero la bella illusione da loro stessi voluta e creata dal pianeta Solaris. Non è possibile sapere se il mondo in cui vivono sia reale o pura espressione dei loro desideri. Anche il rientro a casa nel finale del film è sospeso nell’incertezza di cosa sia reale e cosa non lo sia. Kelvin osserva da fuori l’interno della dacia dei suoi genitori, come se a lui fosse ormai proibito o impossibile entrarvi: è un luogo della memoria, che non esiste come tangibile. L’ultima inquadratura, poi, rivela che la casa si trova su un’isola del mare di Solaris, così come in “Nostalghia” verrà collocata all’interno della basilica di San Galgano. Quella casa è reale perché viva in qualche “isola” della nostra coscienza, nel nostro ricordo, ma ugualmente rimane irraggiungibile. La difficoltà e la distanza inequivocabile tra il reale e l’ideale sono ulteriormente marcati dall’uso che Tarkovskij fa nei suoi film –ed anche in Solaris- dell’acqua e dell’arte. L’acqua, onnipresente nei film del regista russo, è qualcosa che scorre vie, senza fermarsi, senza possibilità di rimanere bloccata o cristallizzata in alcun dove. L’ideale è ancora più doloroso perché il reale sfugge ed è impossibile imbrigliarlo: solo nella scena finale il ruscello vicino alla casa dei genitori di Kelvin è fermo, perché ghiacciato; ma ancora quella casa altro non è che l’isola di coscienza dell’astronauta, cristallizzata nel ricordo. Ugualmente, il continuo confronto fra la realtà circostante e l’arte ci ricorda che talvolta è la vita a cercare di imitare la perfezione e l’immobilità dell’arte e non il contrario. In Solaris vengono mostrati quadri di Brugel e chiari riferimenti a Rembrandt (il ritorno a casa, nella sequenza finale). Anche l’arte funge da luogo interiore di memoria.
Il sentimento di una cultura si mescola col sentire del regista in questo capolavoro di genere che dimostra, ancora una volta, come la fantascienza sia un fantastico contenitore che è possibile riempire con tutto ciò che vogliamo, unico limite la propria fantasia.
Alessandro Pigoni
Titolo: Solaris
Regia: Andrej Tarkovskij
Anno: 1972
Durata: 167 minuti
Interpreti: Donatas Banionis, Natal’ja Bondarčuk, Jüri Järvet, Anatolij Solonicyn
[…] stoica perché decisa ad accettarla, senza cambiare nulla. In un paio di scene il riferimento a 2001: Odissea nello Spazio di Kubrick è chiaro, soprattutto per alcune inquadrature sovrapponibili, ma a differenza di Interstellar, […]