Fuori nel freddo, fuori nella pioggia, fuori nella neve.
Anna Andreevna Achmatova è una poetessa russa acmeista. L’acmeismo è un movimento letterario russo della prima metà del secolo scorso. Il suo nome deriva dal greco acmé (culmine). Nacque in opposizione al simbolismo, sviluppando tematiche e un uno stile espressivo fondati sulla chiarezza rappresentativa, sulla concretezza dei contenuti e sullo studio dei valori formali del verso. “Lei ha letto Dante?”, rispose: “Non faccio altro che leggere Dante”.
La città è tutta coperta di ghiaccio.
Come sotto un vetro, alberi, muri, neve.
Procedo sul cristallo timorosa,
così incerta è la corsa della slitta arabescata.
Sopra il San Pietro di Voronež corvi,
pioppi e volta di un cielo verdechiaro,
erosa ed appannata nel polline solare;
sui pendii di una terra possente,
vincitrice aleggia la battaglia di Kulikovo.
E, come coppe che si levino, i pioppi
risuonano d’un tratto più sonori,
quasi bevessero alla nostra gioia
mille ospiti, in un banchetto nuziale.
Ma nella stanza del poeta in disgrazia
vegliano a turno la paura e la Musa.
Ed una notte avanza
che non conosce aurora.
(1936, da “Il Giunco”)
Anna Andreevna Achmatova fu espulsa dall’Unione degli Scrittori Sovietici nel 1946 con l’accusa di estetismo e di disimpegno politico. Non cantava l’eroe sovietico, ma il freddo della neve, gli alberi induriti, i corvi tristi, gli uomini felici, i calici che fanno brillare il pallido sole dell’inverno in città.
Anche Anna Andreevna Achmatova patì le Grandi purghe, una vasta repressione avvenuta nell’URSS nella seconda metà degli anni trenta, voluta e diretta da Stalin, per epurare il partito comunista da presunti cospiratori. Il periodo viene pure indicato con i termini di Terrore, Grande Terrore, o, in Russia, con quello di Ežovščina dal nome del capo dell’NKVD nel periodo più tragico delle purghe.
Nei terribili anni della “ežovščina” ho trascorso diciassette mesi a fare la coda presso le carceri di Leningrado. Una volta un tale mi riconobbe. Allora una donna dalle labbra bluastre che stava dietro di me, e che, certamente, non aveva mai udito il mio nome, si ridestò dal torpore proprio a noi tutti e mi domandò all’orecchio (lì tutti parlavano sussurrando): – Ma lei può descrivere questo? E io dissi: – Posso. Allora una specie di sorriso scivolò per quello che una volta era stato il suo volto.
La poesia chiama fuori di sé. Fuori dalle ideologie, fuori dalle convinzioni, fuori dalle certezze. Fuori dai giudizi, fuori dalle ostentazioni, fuori da un cultura da vendere. Fuori dai gruppi, fuori dalle religioni, fuori dai possessi. Fuori nel freddo, fuori nella pioggia, fuori nella neve. A stupirsi che ogni realtà del mondo può essere cantata, che non c’è nessun luogo della terra che non sia amato e non ispiri amore.
(Bol’soj Fontan, 23 giugno 1889 – Mosca, 5 marzo 1966)