La banca del villaggio in Bangladesh
Venerdì 5 luglio, notte fonda. Il taxi corre in una Milano ancora addormentata, silenziosa, stranamente deserta. Ancora non avevo realizzato che, accettando di fare uno stage in Grameen Bank, meno di 24 ore dopo sarei stata catapultata in un Paese così diverso da indurmi a chiedermi se appartenessimo alla stessa galassia. Grameen Bank, la cui fondazione risale al 1976 da parte di Muhammad Yunus (premio Nobel per la Pace 2006), è una banca che si occupa di micro-credito, ovvero di concedere modesti prestiti in denaro a coloro che non possono offrire le garanzie che richiede una banca tradizionale.
Considerando che più di metà della popolazione del Bangladesh ha meno di 20 anni e gran parte è costretta a vivere al di sotto della soglia di povertà, è interessante constatare che oggi i prestiti di Grameen Bank abbiano raggiunto più di 8 milioni di clienti, con l’obiettivo di sostenere ed incentivare le loro più disparate attività produttive. In poche parole, Grameen Bank (letteralmente “La banca del villaggio”) fa quello che il governo bengalese dovrebbe fare ma non fa, ovvero difendere e sostentare le fasce più deboli della popolazione. È stato sorprendente scoprire che il 95% di questi prestiti fosse rivolto a donne, in un Paese tra i più poveri al mondo e a maggioranza musulmana! Del resto, l’ingresso delle donne nel circuito produttivo del Paese sta modificando i comportamenti tradizionali bengalesi, dall’accesso all’istruzione alle attività economiche, e non a caso i recenti scontri politici che stanno infiammando il Bangladesh sono dati proprio da un irrigidimento della fazione religiosa più conservatrice, ostile al cambiamento.
Prima di partire non sapevo quasi nulla del Bangladesh, e a stento riuscivo a collocarlo su una mappa geografica. Ora non posso dire di conoscere questo Paese, ma proverò a raccontarvi le sensazioni che mi ha regalato in un mese di esperienze sul campo.
Avete mai attraversato l’atrio di una piscina comunale, quando, camminando verso gli spogliatoi, indossate ancora jeans e cappotto e ad ogni respiro vi sembra di inalare una bottiglietta d’acqua? Ecco, siete appena usciti dall’aeroporto di Dhaka, capitale del Bangladesh nonché città peggiore in cui vivere secondo l’Economist. Sulla base delle più recenti statistiche, il Bangladesh vanta una popolazione di 150 milioni di individui, concentrati in un territorio di 144mila km quadrati, che più o meno sarebbe come immaginare le popolazioni di Italia, Spagna e Francia messe insieme e concentrate nel Nord Italia, fino alla Toscana inclusa.
I primi giorni a Dhaka ero stordita dalla contemplazione di quell’incessante andirivieni di esseri umani che brulicavano per le strade come un formicaio irrequieto. Il traffico urbano è dominato dai rickshaw, elettrici o manuali, da curiosi autoveicoli a tre ruote, da qualche auto privata e da malmessi autobus arrugginiti che osservano diligentemente la legge della giungla. Non importa il senso di marcia, non sembrano esistere precedenze regolate, ma per farsi strada è quanto mai essenziale avere un buon clacson da suonare senza pietà.
Per chi è stato a Dhaka non sarà facile dimenticare l’odore soffocante della fermentazione di resti naturali lasciati ad essiccare sotto il sole equatoriale, gettati maldestramente in rudimentali cassonetti arrugginiti ai bordi delle strade non asfaltate o agli angoli dei marciapiedi sconnessi. La gente abbandona qualsiasi cosa per strada: dalla spazzatura di ogni genere ai cani moribondi, quasi come se la strada fosse un non-luogo, come se non appartenesse a nessuno.
Ad ogni passo sentivo gli sguardi dei passanti posarsi con curiosità sui nostri vestiti occidentali, sulla nostra carnagione chiara e il nostro essere così “diversi”; talvolta avevo la sensazione di essere come dentro alla vetrina di un negozio. In un mese di stage, eccezion fatta per gli altri stagisti internazionali di Grameen Bank, non ho mai incontrato nessun turista occidentale. Non sono sicura che tutte le persone che ho visto accasciate ai bordi delle strade fossero ancora vive, ma la cosa più raccapricciante è che dopo tre settimane mi ero quasi abituata a vedere tanta miseria.
Camminando per le strade di Dhaka ho avuto più volte la sensazione di assistere ad un interiore scontro tra civiltà: quella in cui sono cresciuta, che mi ha accompagnato per quasi 23 anni di vita, così frenetica, stressante, tanto agognante di modernità quanto intrappolata in un classismo proverbiale; e quella che avevo davanti agli occhi, altrettanto convulsa, caotica, priva di qualsiasi coordinazione sistemica, ma inspiegabilmente rilassata, amichevole, accogliente. Non occorre trascorrere molto tempo in Bangladesh per capire che nonostante la frenesia del traffico sembra che le persone vivano più lentamente, prendendosi il tempo di cui hanno bisogno per compiere anche le più banali operazioni quotidiane, senza indossare orologi, senza conoscere la fretta, senza il nostro inutile accanimento.
Ho avuto modo di conoscere quella che ho interpretato come “la vera essenza” del Bangladesh quando ho trascorso 4 giorni in un villaggio nella zona a sud del Paese, vicino a Chittagong, area fondamentalista islamica. Lontano dal rumore, dagli odori e dal caos primordiale di Dhaka, la vita nei villaggi bengalesi sembra scorrere in un universo parallelo, fuori dal tempo e dal mondo come lo intendiamo noi. Non ho potuto fare a meno di chiedermi se gli abitanti del villaggio fossero felici davvero o se lo fossero soltanto perché ignoranti del mondo che sta oltre le loro piccole capanne.
Per ulteriori informazioni sull’internship in Grameen Bank visitate il sito http://www.grameen-info.org
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