Il Kumano Kodo giapponese – 2 | Takahara Kumano Jinjia e il villaggio di Takahara
“A Takahara la luna
S’innalza sulla cima del monte
E splende su d’un millenario albero di canfora”
Minamoto-no- Michichika, 1149-1202, nobile giapponese che accompagno l’imperatore dimesso Gotoba lungo il suo pellegrinaggio
Il Kumano Kodo giapponese – 1 | Il senso della salita
Il sentiero mi aveva dolcemente accompagnato giù, lungo il crinale, ed in lontananza scorgevo solo una montante foschia. Sapevo d’altronde che la mia successiva meta, il villaggio di Takahara, fosse nota come Kiri-no-Sato, il villaggio nella nebbia. Da queste parti si dice che la nebbia sia un velo di separazione tra il fisico e il metafisico, un confine tra ciò che è misurabile e ciò che è inconoscibile. È l’elemento che lascia spazio all’immaginabile.
Takahara sta proprio lì, tra ciò che è e ciò che potrebbe essere.
Poco oltre l’ingresso del villaggio si staglia il più antico tempio giunto sino a noi, della via Nakahechi: il Takahara kumano Jinjia, circondato da alberi di canfora, la cui sopravvivenza si ritiene essere millenaria. Proprio per la strenua forza di questi alberi e la resistenza del loro legno era uso costruire con esso le statue del Buddha.
Lungo la breve strada che rimaneva da percorrere prima della sosta, s’incrociava solo qualche vecchia signora che s’inchinava in un ridente Konichiwa e scivolava via, inghiottita dalla foschia crescente, come una benevolente visione. E come nell’ignoto si trovano cose che s’erano perdute, così io ritrovai lo spirito per suonare di nuovo, un lieve Chopin, in un caldo salone di legno. Lo spirito d’una sera che subito è fuggito via, con la nebbia, lasciando dinnanzi a me una mattina soleggiata e tutte le rinate inquietudini che s’erano sopite grazie all’immaginazione.
Il limpido mattino di Takahara salutava benevolo ed io rispondevo, pronto a misurare il tempo col ritmo dei miei passi. La nebbia era oramai un lontano ricordo e nulla il giorno precedente lasciava presagire che lo sguardo potesse spingersi tanto oltre, fin quasi a scorgere il mare che mi ero lasciato alle spalle.
Un piccolo cartello di legno incorniciato da narcisi indicava la via: dietro al villaggio un serpente di pietra s’annodava oltre la collina, riportandosi in mezzo alla foresta. Io mi avviai insieme a lui.
Dopo circa un’ora di cammino, nel pieno d’una intricata foresta di cedri e pini giapponesi, il Daimon Oji. Di questo piccolo tempio non esiste traccia nelle memorie scritte, salvo una nota d’un nobile Fujiwara che narrò d’aver qui trovato rifugio e ristoro grazie ad una fonte d’acqua. Si ritiene che, data l’etimologia del nome, fosse la sede d’uno dei Torii rappresentanti le nove virtù. Oggi non ne resta che qualche monolite a ricordare le passate glorie. Molti dei piccoli templi che segnavano la strada dei pellegrini oggi non ci sono più: il medesimo destino toccò allo Jyuten Oji, riportato in alcuni testi come “il riparo d’un giorno piovoso”, poco distante dal precedente.
La via di Kumano non vuol essere solo la storia di edifici, ma, piuttosto, storia di uomini. Mi ripiombava, per questa ragione, nel mezzo di alcune vicende, mostrando come persone e cose condividano lo stesso percorso di caducità. Ad ogni passo mi era sempre più chiaro il messaggio: non preservare te stesso, preserva la memoria.
La prima è la storia di Bungo, un uomo che si trovò a morire sotto uno di questi alberi in un caldo giorno di luglio del 1854. Percorreva la strada dal tempio di Ise ma, affamato ed affaticato, si lasciò cadere privo di vita ponendosi, come ultimo gesto, una moneta d’oro sulle labbra. L’oro, in una foresta, non compra nulla. L’acqua, al contrario, redime la vita. Commossa dall’ultimo messaggio del pellegrino, la comunità locale pose una statua di Jizo in sua memoria.
La seconda narra di Jujo Akushiro, uomo forte, spiritoso e dal gran valore che secondo un cartello dei primi anni del XVI secolo visse ai piedi di una di queste montagne, lungo la strada per Hongu. Per l’aiuto generoso che diede ai pellegrini fu dato il suo nome alla montagna.
Pensai a quanto abili siamo nel navigare magnifici sulla superficie delle cose, finti padroni del mondo. Un segnale sbiadito mi urlava: qui qualcuno visse e, da allora, mai più.
Il percorso proseguiva tra saliscendi in mezzo alla vegetazione, sino alla ripida salita per il monte Takao, celebre per il mito della Triplice Luna, considerata da alcuni manifestazione delle divinità di Kumano e venerata in vari siti della regione. Si racconta che molto tempo fa un eremita della montagna di ritorno dal pellegrinaggio ai santuari, si fermò presso il villaggio di Chikatsuyu, affermando di aver osservato dalla cima del Takao la luna farsi triplice nella sera del 23mo giorno dell’11mo mese. Nell’osservarla s’era riempito di un indomabile potere. Dubbiosi, i giovani del villaggio scalarono il monte nel giorno indicato dal vecchio ed assistettero all’apparizione miracolosa: la luna, sorgendo dalle montagne ad oriente, all’improvviso, ne generò altre due.
Dopo la discesa, ci si scontra con uno dei luoghi più celebri del percorso Nakahechi, il passo di Hashitori-Toge e la statua di Gyuba-dojii. Il passo ed il villaggio di Chikatsuyu poco distante, prendono il nome da un evento che ebbe luogo durante il primo pellegrinaggio imperiale attraverso i monti della penisola di Kii. L’imperatore dimesso Kazan (968-1008 d.C), s’accingeva a costruire un tumulo per i suoi sutra quando raccolse da terra due canne da usare come bacchette da riso. Notò subito che sul loro gambo rosso c’era della rugiada. Le fissò meglio ed iniziò a chiedersi se la rugiada non fosse in realtà il sangue della terra. Questa domanda, sangue o rugiada, diede il nome al villaggio, letteralmente “Ki Ka tsuyu”. Al passo, di conseguenza, fu dato nome bacchetta piegata, in giapponese “Hashihori”. In questo luogo vegliano da allora la statua di Gyuba Doji, rappresentazione dell’imperatore Kazan in groppa ad un cavallo e ad una mucca e quella di Ennogyoja, il fondatore della religione Shugendo, un culto misto basato sulla venerazione degli spiriti della montagna.
Vagando soli per queste montagne si ha inizialmente la sensazione d’essere soli nel bel mezzo del nulla. Progressivamente realizzai come fosse totalmente l’opposto. Intorno a me non c’erano solo storie e memorie d’un grandioso passato oramai perduto. C’era un’incredibile esplosione di vita. Gli alberi non si stagliavano alti e soli, le rocce non erano lì imperturbabili ed intoccate da secoli. I primi, dando rifugio ad animali ed intrecciando le loro radici cooperavano da tempo immemore alla salute del bosco, le seconde, coperte di muschio, erano palcoscenico per la cooperazione di muschi, insetti, batteri. In effetti la cosa più commovente era comprenderne la connessione: tutto in natura è il prodotto della cooperazione e della simbiosi ed in questo cammino io ero accolto dalla natura come ospite ben voluto del suo grande e meraviglioso progetto.