Il Kumano Kodo giapponese – 1 | Il senso della salita
Ci vuole del tempo per metabolizzare un cammino e cercare di descriverne il ritmo cadenzato, lo strascichio dei passi tra minuti ciottoli e tappeti di foglie cadute.
Il mio Kumano Kodo.
Ho così atteso diversi mesi prima di decidere che era giunto il tempo. Il tempo di ripartire da Tanabe, piccola e sconosciuta cittadina costiera della prefettura di Wakayama nella penisola di Kii, al termine di un marzo particolarmente rigido che ancora non si decideva a mostrare il colorato e possente risveglio della natura primaverile del Kansai.
Un tempo gli imperatori del Giappone consideravano Tanabe una porta, l’ingresso alla dimora degli Dei, l’inizio del cammino di purificazione che tra foreste rigogliose e piccoli villaggi, li avrebbe condotti ai tre santuari shintoisti di Kumano: Hongu, Hayatama e Nachi. Oggi Tanabe è una cittadina costiera senza pretese: qualche lanterna che addobba un porticato ed una manciata di ristoranti che attendono i pochi pellegrini in partenza. Solo qualche minuta statua di Jiizo, nascosta in una siepe o poggiata su di un capitello, ci ricorda silenziosamente i fasti del remoto tempo in cui vivaci carovane andavano comprando merci d’ogni genere prima di lasciarsi il mare alle spalle ed arrampicarsi sui monti. Avevo deciso che da qui avrei cercato anch’io la mia interiorità, lungo i sessanta chilometri che mi separavano da Hongu, inseguendo l’equilibrata armonia che deriva dalla totale simbiosi con la natura.
D’altronde cos’è il culto shintoista, se non la venerazione del mistero del creato e il profondo rispetto del ciclo della vita?
IL SENSO DELLA SALITA
La via di Nakahechi si apre alla riunione di due vallate ove s’incontrano possenti corsi d’acqua: Taki Jiri, letteralmente, la base della cascata. In questo luogo i pellegrini, immergendosi, purificavano corpo e spirito prima del lungo viaggio di preghiera. Un irreale silenzio accompagna lo sciabordio delle acque: si dice che uno dei due fiumi fosse il mitico Sanzu-no-Kawa, colui che separa la terra dei vivi da quella dei morti.
Alle spalle di quel che resta del tempio che dava riparo a pellegrini, sacerdoti e sacerdotesse, si scorge l’ingresso alle montagne, definite paradiso Buddhista della rinascita. Un torii, un portale, segna la strada, cosa per nulla strana in Giappone. Se ne trovano di legno o in pietra, immersi nella modernità o nella foresta coperti di muschio. Chi passa il torii purifica l’anima e, anche se solo per un attimo, i kami, spiriti della natura, gli parlano. Cominciavo a comprendere che qui tutte le cose hanno un’anima.
La salita al monte Tsurgi-no-Yama inizia qualche passo più in là. Essa fu il percorso obbligato sino al XVI secolo per i fedeli che si apprestavano a percorrere la via. Ad accompagnarmi il solo tonfo di passi e qualche uccellino che col suo cinguettio incostante s’inseriva nella scansione ritmica ed affannata del mio respiro. Salire è metafora di vita: ci si scontra con la fatica, il fiato corto, il peso dello zaino che tenta di trattenerti a valle. È un po’ questo il senso catartico della salita: vincere il peso che ci lega a valle e sentire che, alla fine, ce la si può fare a raggiungere la vetta.
Dopo la catarsi il buio della fede: il passaggio attraverso la caverna di Tainai Kuguri, che significa “passaggio attraverso il grembo della madre”. Si narra infatti che le giovani gravide in cammino, risalendo metaforicamente il canale del parto, avrebbero ricevuto in dono un travaglio senza complicazioni.
Emersi dallo stretto passaggio ci si imbatte subito nella Roccia Chijchi-iwa, letteralmente “roccia del latte”. Una leggenda ci racconta che un potente membro del clan Fujiwara e la moglie incinta si trovassero in questo tratto del sentiero di pellegrinaggio quando, usciti dalla caverna, la donna entrò in travaglio e diede alla luce un bambino. Certi che gli spiriti della natura se ne sarebbero presi cura, i due abbandonarono il neonato sotto la roccia e proseguirono nel loro cammino. Venne infatti una lupa a salvarlo, facendo gocciolare del latte dalla roccia. Quando i genitori tornarono, raccolsero il bimbo e tornarono nella capitale. Oggi un piccolo masso raffigurante il neonato le cui fattezze sono state erose dal tempo, ci ricorda questa vicenda.
Ho imparato presto che lungo questa strada c’è ben più della preghiera: ad ogni angolo si svela la memoria. Non si venerano solo i sussurri di deità invisibili, si celebrano i sospiri delle centinaia di storie che qui si sono intrecciate alla ricerca del filo che lega tutte le cose.
Il cammino prosegue impervio lungo il fianco della montagna, s’arrampica tra gradini di radici e massi sconnessi. Il cielo lascia cadere qualche goccia, giusto quel che serve per alleviare almeno un po’ il caldo della fatica.
Giungo ad una radura circondata da pini e felci che un cartello sbiadito descrive come “Tumulo di Tsurgi Sutra”. Sin da tempi antichissimi questa terra è considerata sacra. Si dice che qui fosse posto il primo dei cancelli lungo la strada per Hongu, rappresentanti le nove virtù che il fedele avrebbe dovuto raggiungere per assicurarsi un facile passaggio all’eternità. In questo luogo, dei brevi aforismi (sutra) erano sigillati in una guaina, posti in un vaso e seppelliti, come patto tra uomo e divinità. Agli inizi del 19mo secolo il sito fu saccheggiato ed oggi sopravvive solo uno di questi vasi votivi in terra e muschio.
La salita viene infine ripagata dal primo panorama: la vista sulle vallate e le foreste dal Tsurgi-no-Yama.
(…continua il viaggio con la seconda parte del kumano kodo…)