Keleketla! Da Soweto a Londra, passando per una biblioteca

Keleketla! Da Soweto a Londra, passando per una biblioteca

Keleketla

“Sono stati Malose e Ra di Keleketla a chiamarci per chiederci se volessimo essere coinvolti. C’è parecchia differenza tra quei musicisti bianchi che si paracadutano in Sudafrica per portarsi via della musica e invece essere invitati a fare qualcosa qui, insieme” (da un articolo di Bandcamp, questo)

Non riesco a negarlo: rimettere sul piatto oggi due classici del songwriting più evoluto e stiloso degli anni Ottanta come Remain In Light dei Talking Heads o Graceland di Paul Simon porta con sé una sensazione amara. Anche per via della piega che ha preso il dibattito pubblico in merito all’appropriazione culturale, è davvero difficile riascoltarli esclusivamente per quello che sono da un punto di vista musicale – capolavori che hanno influenzato tutto il canone della canzone pop occidentale – senza problematizzarne le origini e l’eredità.

Ricapitolo per i distratti.

Nel 1980, quattro musicisti bianchi guidati da David Byrne pubblicano – dopo essere partiti da un punk intellettuale, slabbrato e nevrotico – quello che può essere considerato la versione da scuola d’arte newyorkese di un disco afrobeat, genere totalmente africano. Nel 1985, la mente creativa del duo Simon & Garfunkel se ne vola a Johannesburg in pieno Apartheid per suonare township jive con strumentisti e vocalist locali e se ne ritorna poi in studio a New York per infilare quei suoni in undici canzoni diventate il modello per tutti i Vampire Weekend di questo mondo.

Si respira in quei solchi un’euforia sincera, ed è automatico immaginare – anche senza essere dei profondi conoscitori della storiografia rock – quanto opere del genere abbiano contribuito ad abbattere steccati nell’immaginario sonico occidentale. Ma quarant’anni dopo basta prestare un poco di attenzione all’ascolto per rendersi conto di quanto non ci fosse alcuna reciprocità in quella scoperta: si sente piuttosto l’allegria di bianchi che avvistano una terra per loro nuova e decidono di piantarci la bandierina; un’integrazione solo apparentemente orizzontale, che si sviluppa in realtà in modalità top-down.

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Si può presupporre la buona fede, certo, ed è pure sano farlo – senza quella è veramente complicato stare al mondo, e poi verrebbe a mancare uno dei cinque pilastri fondanti di Wikipedia, che è l’unico esempio virtuoso di intelligenza collettiva via Internet di cui io sia a conoscenza. Nonostante questo, è tempo di ricalibrare l’analisi di operazioni di questo tipo a partire da una semplice constatazione: sappiamo quanto Remain In Light sia stato fondamentale per l’evoluzione della nostra musica, ma non ci domandiamo mai cosa abbia rappresentato in positivo per la terra d’origine di quei suoni, l’Africa occidentale.

La risposta è semplice e violenta, probabilmente: niente.

Di una cosa simile si parlava qualche giorno fa in un articolo del New York Times riguardo al ruolo centrale del jazz in tempi di protesta e rabbia come quelli che stanno vivendo proprio ora gli Stati Uniti. Si potrebbe dire che questo genere – musica di liberazione per i neri americani opzionata a un certo punto da case discografiche gestite perlopiù da bianchi – sia stato pienamente accettato anche a livello istituzionale, eppure nei programmi accademici il jazz è stato spesso depurato di ogni connotazione razziale e soprattutto reso inaccessibile a chi l’ha creato sul serio: “nelle università non esiste una pipeline per i neri americani per suonare la propria musica e impararne la storia”, dice il sassofonista J.D. Allen.

Insistiamo, allora: nel 2020 è necessario esigere dall’arte uno scambio reale tra culture e un riconoscimento vero delle reciproche sensibilità. È così che arriviamo a parlare di Keleketla!, un ponte interculturale tra Soweto e Londra e un album fra i più belli di questo anno complicato.

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“Sin dall’inizio l’intera idea di Keleketla come spazio è semplicemente quella di sperimentare l’arte ed esplorare cosa questa possa fare nella vita, come finisca e come diventi rilevante. L’abbiamo usato per affrontare questioni relative al patrimonio culturale e al pericolo di una storia univoca e per consentire a quello spazio di essere un luogo in cui più storie e più narrazioni possano coesistere parallelamente per sfidare le narrazioni dominanti” (qualcosa sulla biblioteca)

Keleketla è una biblioteca indipendente nata a Soweto nel 2008.

Più che di libri, però, si occupa di progetti artistici multi-disciplinari che hanno lo scopo di favorire lo scambio orale di idee diverse e distanti: in questo senso, la si potrebbe definire una sorta di “living library”. Le biblioteche viventi funzionano esattamente come quelle normali – c’è un catalogo di titoli disponibili, si può scegliere quel che si vuole leggere e prenderlo in prestito; la differenza sta nel fatto che in una “living library” i libri sono persone, le storie sono raccontate a voce e la lettura è una conversazione.

E se “keleketla” in lingua Sepedi significa “risposta”, allora nessuna parola più di “conversazione” è adatta per descrivere l’album omonimo uscito da qualche settimana per Ahead Of Our Time. Che non è un semplice album con molti feat. di prestigio, ma un progetto di vero e proprio attivismo socio-culturale dalle radici possenti e profonde, che nasce da una proposta di In Place Of War, organizzazione che si occupa di portare l’arte – e con essa nuove speranze, opportunità, libertà – in zone di conflitto.




Alla richiesta di un elenco di artisti con cui la biblioteca avrebbe voluto collaborare per registrare musica, Keleketla ha replicato subito con un gran numero di nomi del catalogo della favolosa Ninja Tune, una di quelle label indipendenti capaci di captare suoni intriganti a ogni angolo del globo (Cinematic Orchestra, Fink, Sampa The Great, Bonobo, Floating Points, Kate Tempest e Mr.Scruff abitano tutti qui). Soprattutto, Ninja Tune è figlia della visione creativa giroscopica di Matt Black e Jonathan More, duo inglese noto al mondo come Coldcut e artefice di veri classici della sampledelia anni Novanta come Let Us Play! – uno dei più bei “dischi fatti con altri dischi” che potrete mai incontrare in vita insieme a Endtroducing di DJ Shadow o Since I Left You degli Avalanches: garantito.

Sono proprio Black e More a rispondere a propria volta alla chiamata di Keleketla e a raggiungere Johannesburg per lavorare con una serie di strumentisti locali al Trackside Creative (il luogo: l’hub creativo scelto per le sessioni), con la collaborazione di Mushroom Hour Half Hour (il mezzo: una ex radio pirata convertita in etichetta discografica e dotata di uno studio di registrazione mobile). Le voci cristalline di Nono Nkoane e Tubatsi Maloi; il basso di Gally Ngoveni, la chitarra di Sibusile Xaba, le percussioni di Afla Sackey: la sfida – per tutti, Coldcut compresi – è costruire una connessione emotiva e musicale in presa diretta con artisti mai incontrati prima; una situazione intrinsecamente imprevedibile e totalmente fuori dalle logiche di controllo della musica registrata del nostro tempo.

Forte di una serie di tracce strumentali di grande impatto, il duo ritorna a Londra per cucirci addosso canzoni memorabili con il contributo di altri straordinari musicisti, provenienti perlopiù dalla nuova scena jazz britannica – Tenderlonious (flauto), Joe Armon-Jones (pianoforte), Shabaka Hutchings e Tamar Osborn (entrambi al sassofono). Su tutto, però, svettano i poliritmi ancora straordinari di Tony Allen, batterista nigeriano senza cui l’intero genere afrobeat non sarebbe probabilmente esistito – parola di Fela Kuti – e che ci ha lasciati qualche mese fa, a ottant’anni: queste tracce preziose e instancabili sono solo l’ultimo dei tanti modi per ricordarne la grandezza.

Il senso profondo sta tutto in un titolo: Keletla è una storia d’amore internazionale.

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“La collaborazione è la chiave per reinventare, riapprendere, ridefinire ciò che comprendiamo e creare relazioni e collegamenti tra le persone e raccontare storie non raccontate”

È proprio il battito sincopato e inconfondibile di Allen ad aprire le danze di Future Toyi Toyi, cinque minuti che da subito rendono manifesta la naturalezza con cui l’intero Keleketla! saprà mettere insieme tradizione e modernità, strada e club: da un lato, la struttura ripetitiva e pronta per il dancefloor; dall’altro, i canti corali del collettivo hip-hop Soundz Of The South, suono di una rivoluzione che annuncia se stessa, sfrontata e trionfante. Quella che si ascolta anche in Freedom Groove, i fiati minacciosi degli Antibalas a far da tappeto alle declamazioni furiose dei Watts Prophets, uno di quei gruppi americani che – come i coevi Last Poets o Gil Scott-Heron – possono essere considerati a ragione tra i precursori dell’hip-hop.

Se International Love Affair, Shepherd Song e 5&1 danno proprio l’idea di estendersi nel minutaggio per la pura gioia di suonare insieme – le cuciture del montaggio ex post rimangono completamente invisibili – il meglio arriva probabilmente nella terza delle quattro facciate di musica in programma. Sono le rime acide e visionarie di Yugen Blakrok“my heart’s a sacred relic / smooth, hard, and metallic / with a separate nervous system that vibrates psychedelic” – a dare una spina dorsale rap all’oscillare sincopato di Crystalise, tra gli scratch di DeeJay Random e il mantice potente di Hutchings e Osborn; Broken Light è invece un dub rilassato e ipnotico in cui la magia sta nell’intesa puramente istintiva delle voci di Nkoane e Maloi.

Niente, però, racconta Keleketla! meglio dell’esaltante tour de force afrobeat Papua Merdeka, che in sette minuti aggrappati a una sezione ritmica vorticosa racconta la violenza del regime indonesiano nella repressione delle proteste degli abitanti della Nuova Guinea Occidentale; la voce è quella di Benny Wenda, leader del movimento per la liberazione di quella regione dall’egemonia indonesiana – appunto “Organisasi Papua Merdeka” – che da bambino vide la propria famiglia decimata da un bombardamento aereo ordinato dal governo di Suharto. Un atto bestiale che non sorprenderà purtroppo chiunque abbia studiato la storia locale del secondo Novecento o anche solo visto l’indimenticabile The Act Of Killing di Joshua Oppenheimer.

Le giuste cause non sono sufficienti a fare giusti dischi, è vero. Ma proprio in questo sta il piccolo miracolo orchestrato dai Coldcut e Keleketla, capaci di estrarre da improvvisazioni irresistibili la linfa vitale di una protesta gioiosa e inevitabile e di una storia raccontata da una nuova prospettiva. Finalmente nella forma di una conversazione tra pari, e non in quella di una lezione frontale noiosa e ingiusta, monocolore e unidirezionale:

“non ho problemi col termine “black music”. Appoggiando Black Lives Matter, alcuni dirigenti del settore hanno chiesto di abbandonare la definizione “urban music”, dato che si tratta di una strategia delle major per dare una passata di bianco a qualcosa che è stato preso ai neri, alla musica nera, alla cultura nera. E lo dico da uomo bianco: conosco il debito della mia carriera nei confronti di quel mondo. Portare a termine questo progetto e lavorare in maniera rispettosa e onesta con musicisti africani e farne qualcosa che fosse una celebrazione e non una cosa bella solo per una parte: era molto importante farlo in modo corretto, e abbiamo fatto del nostro meglio per farlo in modo corretto” (Matt Black, da un’intervista su Huckmag)

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Titolo: Keleketla!
Autore: Keleketla!, Coldcut
Etichetta: Ahead Of Our Time
Durata: 56’
Anno: 2020

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