Give me your beautiful crumbling heart. Kate Tempest è un faro nel buio
“Cosa c’è?”, mi ha chiesto Andrea mentre lentamente ci allontanavamo dalle luci al neon del Ray-Ban Stage al Primavera Sound, e “cosa c’è?” è una domanda da cui non posso più sgattaiolare via. Né voglio. Nei sentimenti, nelle emozioni – pure quelle che non vorremmo – bisogna imparare a starci, e, se nove mesi di psicoterapia mi hanno insegnato qualcosa che valga per me, è proprio questo.
Il mio migliore amico lo conosco da undici anni ormai e non c’è proprio verso che gli nasconda qualcosa, e in ogni caso le cicatrici del concerto di Kate Tempest avevano impiegato solo pochi istanti per addensarsi in lacrime che minacciavano di sgorgare come quel temporale delle 4:18 del mattino di cui Kate cantava in Let Them Eat Chaos.
Quel temporale, poi, non è arrivato mai: non è che uno possa imparare a lasciarsi andare completamente in così poco tempo, nonostante Francesca stia facendo miracoli (Dio benedica i cognitivo-comportamentali di orientamento costruttivista). Però qualcosa ad Andrea l’ho detto; a fatica, col groppo in gola e la solita perenne sensazione di gravità schiacciante, ma l’ho detto.
E quello che gli ho detto posso dirlo anche a voi così: piango, amico mio, perché il desiderio di Kate Tempest di “arrivare”, di parlare a tutti”, di scuoterci dal torpore in cui ci hanno precipitati questi tempi orridi – in cui nulla sembra potersi conoscere con certezza e i nostri leader “non fingono nemmeno più di non essere demoni” – è un imperativo morale che non ammette repliche, un vento di speranza che non si può ignorare e capace di spalancare le finestre e far entrare aria buona e nuova e fresca nelle stanze buie delle nostre vite. Sì, amico mio, piango per questo e per tutto il resto che proverò a dire ora.
The Book Of Traps And Lessons arriva a un po’ di anni dal disco precedente di Tempest, e in mezzo sono successe tante cose – Brexit e tutto il casino che ancora ne segue, la vittoria di Trump, l’esplosione dell’ultra-destra xenofoba in tutto l’Occidente, un perenne sentirsi stretta alla gola la mano di un Potere sempre più inetto e volgare.
Niente che Kate Tempest o altri pensatori acuti non avessero saputo prevedere, per carità – se quest’estate in tanti stiamo leggendo Mark Fisher e di hauntology, depressione e realismo capitalista, non è proprio un caso – ma essere immersi in una simile notte non fa certo venir voglia di dire “te l’avevo detto, io”.
In Let Them Eat Chaos era come trovarsi a danzare sulle ceneri dell’impero, tra ketamina a colazione e un’Europa perduta, tra una solitudine divorante e un’incapacità di uscire dalla propria bolla e tendere la mano e dire “sono qui per te”. Era come l’attesa di una catastrofe che tutti sapevamo sarebbe arrivata ma di cui solo pochi fra noi avevano il coraggio di parlare ad alta voce: per farlo, Tempest, si avvaleva di basi basso/batteria pesanti e fuligginose e di cadenze hip-hop cingolate, come a farsi strada tra le macerie di un mondo al collasso.
E poi la catastrofe si è manifestata in tutta la propria violenza e ci ha lasciati qui senza più alcuni appiglio – politico, morale, affettivo, sociale: quello che volete. E Kate Tempest, ancora una volta, ha pensato che la sua Arte non potesse fingersi altrove, rispetto al qui e ora; ha raccattato in soffitta una specie di vecchia torcia tutta malmessa, ammaccata e arrugginita e pure con le batterie un po’ scariche, è venuta a bussare alle nostre porte che ancora era notte, ci ha presi per mano e ora nel buio ci guida con quella piccola luce ma una voce straordinariamente sicura.
Di tutto questo è fatto The Book Of Traps And Lessons, e perdonerete se non mi sono dilungato sulle faccende tecniche delle undici tracce in programma, scritte con Dan Carey e prodotte dal mammasantissima Rick Rubin – sì, lui: quello che dopo aver prodotto Beastie Boys e Slayer si specializzò nel resuscitare star in rovina, Johnny Cash per primo.
La matassa sonora si è molto alleggerita, qui: in tre pezzi la voce di Tempest è accompagnata da scarni rintocchi di pianoforte e tastiere e nel centerpiece All Humans Too Late rimane completamente sola ad affrontare l’uragano. In Firesmoke – primo singolo – la base è di una notturna fragranza jazz/trip-hop, mentre I Trap You addirittura s’adagia su un ritmo da valzerino in maggiore che non potrebbe essere più distante dal tono delle parole declamate (l’amore come una trappola che ci si costruisce da sé).
Non ci sono quasi più quei groove schietti e schiantanti come Europe Is Lost o Ketamine For Breakfast: anche quando i ritmi si fanno più insistenti – nei cambi di passo di Keep Moving Don’t Move, nell’ansiogena Holy Elixir – tutto sembra affogato in un’atmosfera oppiacea e stordita, distante. Alla fine, una perfetta metafora sonica: come sarebbe possibile guardare davvero in faccia tutto questo orrore, se non stordendosi almeno un poco?
Eppure, miracolosamente per un’epoca in cui nessuno davvero sembra badare ad altro che al proprio insignificante orticello (come se lo si potesse salvare dalla catastrofe climatica semplicemente facendo finta di niente), Kate Tempest rifiuta ogni lastra per guardare l’eclissi, ogni istinto di autoconservazione, ogni pillola indorata: non ci dice semplicemente cose su di noi, sceglie di dirci cose per salvarci.
È un album intriso di paranoia, The Book Of Traps And Lessons, come potevano esserlo dei classici degli anni Ottanta schiacciati dall’angoscia per la Guerra Fredda (ve lo ricordate Watchmen, no?). E qui la paranoia è figlia dell’isolamento e delle distanze che si aprono come faglie tra gruppi di persone e poi singoli, la paranoia di una società sempre più atomizzata, controllata, impaurita, incapace di sognare una felicità che non sia quella brandizzata dei social network (no, ragazzi, la tecnologia non è neutrale per nulla). Lo dice in Hold Your Own, Kate, che c’è altro:
so hold your own
breathe deep on a freezing beach
taste the salt of friendship
notice the movement of a stranger
L’amore, gli affetti, non sappiamo più gestirli: i ritmi del tardo capitalismo sono così ineluttabili che non c’è più tempo per sentire (“i nostri genitori non ci conoscono / le nostre famiglie ci sono straniere / i nostri amici ci rendono nervosi”), pressati come siamo da un concetto prestazionale dei rapporti umani.
E se nelle relazioni non sappiamo dove sbattere la testa – perfino un’icona pulitina e corporate come Lorde lo cantava: “we’re L.O.V.E.L.E.S.S generation / all fuckin’ with our lovers’ heads generation” – la traduzione all’esterno di questa zoppìa emotiva è la totale chiusura all’altro:
the racist is drunk on the train
the racist is drunk on the internet
the racist is drunk at my dinner table
shouting his gun and killing us all
Sembra di vivere alla fine della Storia, vero? Qualcuno fra noi non ce l’ha fatta a sopportarlo, forse, anche se era riuscito a prevedere e spiegare quasi tutto della nostra società e del nostro starci dentro – sì, parlo di nuovo di Fisher, e quanto ci manca il suo sguardo alle cose.
Ma Kate Tempest ha deciso che no, non ci si può proprio arrendere; non possiamo affezionarci a una vita che non ci appartiene, che sprechiamo, che non viviamo. Ci affida il suo cuore, ci chiede di lasciarle custodire i nostri, perché condivide con noi le stesse emozioni:
i mean, you heard it from yourself
when you were lying in your bed and couldn’t sleep
thinking: couldn’t we be doing this
differently?
Date retta. Non ascolterete un’invocazione più sincera, sentita, lacerante di People’s Faces, quest’anno – o l’anno prossimo, o quello dopo ancora, se è per questo. Perché tanti artisti sono capaci di condensare in un pezzo il senso della propria arte, ma vi accorgerete che in ben pochi casi quel senso coincide con una visione ampia e lucida ed empatica del mondo intorno.
Ecco, di nuovo: Tempest non fa dischi per farci sentire canzoni; Tempest fa dischi per avvicinarsi in mezzo a una strada, abbracciarci e dirci “andrà tutto bene”, nonostante lei non sia meno stravolta di noi dall’incertezza, come se si vedesse svanire davanti a uno specchio:
I’m neat with no chaser
I’m all spirit
but I’m sinking
coz the days are not days but strange symptoms
and this age is our age
but our age is rage sinking to beige
Per non perdere senso c’è un’unica strada: parlare con tutti, imparare a coglierne i momenti di debolezza per essere il loro bastone e quelli di gioia per trarne ispirazione. La rivoluzione che per Bob Mould e gli Husker Du partiva da casa – “preferibilmente davanti allo specchio del bagno” – non può che partire dagli altri, dalla speranza che troviamo nei loro volti, dalla consapevolezza che quello in cui ci siamo cacciati è un inferno di oppressori e oppressi da cui potremmo tirarci fuori se solo accettassimo di non essere isole:
even when i’m weak and i’m breaking
i stand weeping at the train station
cause i can see your faces
i love people’s faces
E rieccomi là, in quella notte a Barcellona, quando per tutta una serie di caratteristiche fondanti la mia persona – timidezza, paura del giudizio degli altri, senso di inadeguatezza – non sono riuscito a dire davvero ad Andrea perché quasi piangessi alla fine del concerto.
Ma credo stia tutto qui, scritto a penna sul retro di sei fogli che servivano ad altro, il senso di un pianto liberatorio che non puoi trattenere quando davanti a te trovi qualcuno che da un palco, con la sola forza della voce, viene a dire a migliaia, centinaia, decine di persone e poi proprio a te: “vieni più vicino, siamo una cosa sola”. Perché è un mondo difficile per le cose piccole come noi, e non c’è più alternativa.
Artista | Kate Tempest
Titolo | The Book Of Traps And Lessons
Etichetta | Republic Records, American Recordings
Durata | 45’