Una città dorata sulla Via della Seta | Jaisalmer, Rajasthan
Alla Città Dorata capisci di essere giunto quando le polverose ed indistinte strade nel deserto, punteggiate di baracche lasciate a se stesse e cammelli dagli occhi affaticati, lasciano spazio a pattuglie di militari ed edifici dignitosi, del colore della sabbia. L’infuocato confine con il Pakistan non è molto in là, ti informa la guida. A dividerci sono solo kilometri di quel nulla che qui chiamano il Deserto del Thar. Sulla linea dell’orizzonte, in cima ad una bassa collina, torreggia un mostro dalle mura massicce, le torri ammassate l’una sull’altra, la pietra ingiallita: il Forte di Jaisalmer.
Ci fermiamo ad assorbire le tinte sfumate di un tramonto che in Rajasthan non delude mai ai piedi di uno specchio d’acqua scavato secoli fa – il Lago di Gadsisar. Cinto da un basso promontorio su cui i locali si accalcano per ammirare lo spettacolo del calar del sole – in mano le briciole di qualche merendina schiacciata per cibare i grassi pesci affollati a riva per la cena – questo laghetto artificiale si trasforma presto nel palco designato di un galante spettacolo di danza, con stormi di uccelli migratori che sfrecciano sinuosi tra gli eleganti tempietti sorti, quasi per caso, nel cuore del lago. Ci appoggiamo ad ammirare la bellezza delle acque che si tingono di rosso sulle pareti pesanti di una porta antica che dà sulle scalette del porticciolo. Dedicata al vendicativo Dio Krishna, l’elegante porta a tre arcate, la Tilon-Ki Pol, nasconde la storia di una ricca cortigiana che riuscì a sfidare l’autorità del Maharajah, costruendo un monumento che la ricordasse nei secoli.
L’aria del deserto è pungente quando la mattina dopo ci svegliamo. Ci aspetta la scoperta di un Forte che, lungi dall’essere abbandonato all’oblio del tempo solo per riscoperto dai viaggiatori avidi delle bellezze esotiche del Triangolo d’Oro dell’India del Nord, da centinaia di anni continua imperturbabile ad essere popolato dalla gente del luogo. Già ai piedi del Forte non possiamo che notare la vita brulicare oltre le stanche mura di una città al cuore della Via della Seta, spazzata dal vento, dalle scorribande e dagli interminabili assedi musulmani. Come immemori di un passato glorioso, alle finestrelle che costellano il bastione sono stati lasciati ad asciugare drappi variopinti, biancheria ed asciugamani, segno inequivocabile di una vita domestica qualsiasi, mai toccata dal dramma di una storia raccontata soltanto da nobili e re.
Su una corda sottile stesa tra due pali, una bambina cammina in punta di piedi. Ai lati delle strade, dove corre l’acqua che tenta di mantenere puliti i marciapiedi, sonnolenti cani fanno la guardia, chissà a cosa. Saliamo. Dove una volta dovevano esserci stati i bazaar ad accogliere quegli stranieri venuti dal lontano Occidente all’opulente ricerca di spezie e tessuti pregiati, oggi spiccano ristoranti confusi in un inglese improvvisato, ad annunciare una cucina (fusion?) a cavallo tra pizza, cibo tipico indiano e kebab. Certe pareti tinteggiate di bianco, giusto fuori dall’uscio delle case, vedono spuntare allegri graffiti di dei panciuti a forma di elefante, ornati di gioielli e copricapi piumati – è il dio Ganesha. Lì, mi raccontano, vivono quelle famiglie che ancora festeggiano un matrimonio recente o che sperano in un po’ di buona fortuna dal dio dell’abbondanza. Svoltando un angolo, una vacca pasciuta potrebbe bloccare il passaggio in un minuscolo vicoletto, con l’aria di sfida di un animale che in India non può essere toccato nemmeno da una piuma.
A riportare indietro nel tempo, tra bancarelle che offrono di dipingerti le braccia con l’henné e i classici “vendo oro” che hanno colonizzato le strade di mezzo mondo, ci pensano i templi giainisti, con il loro candore mantenuto nei secoli ed i tappeti cosparsi di scarpe di ogni forma e colore, lasciate fuori dalla porta e costudite da grassi custodi al prezzo di qualche moneta. Spaccato di un culto volto all’austerità e alla liberazione dal desiderio, paritario e lontano, in teoria, dalle ineguaglianze dettate dal sistema castale, i sette templi sparsi per il Forte e dedicati ai tirthamkara, maestri della liberazione dal ciclo altrimenti infinito delle rigenerazionali sono luoghi di silenzio reverenziale, di intricate figurine scolpite nella pietra dorata e di intensi profumi. Da tempi immemori luogo di pellegrinaggi cominciati da lontano, Jaisalmer rappresenta così soltanto un altro dei baluardi di quel sincretismo religioso e quell’opaca tolleranza tra comunità simili ma orgogliosamente distinte che risvegliano i sogni e gli stereotipi dei viaggiatori europei.
Se ai piedi del Forte si staglia un dedalo di lussuose stradine ornate dai palazzi di nobili arricchitisi un tempo tra la vita di corte e la Via della Seta – gli Haveli – ed oggi divisi dalle gelosie e le invidie di discendenti bellicosi, ad esercitare piuttosto un fascino magnetico mentre il sole scende sull’oro delicato della pietra di Jaisalmer è il deserto. Seduti attorno al fuoco di un accampamento di tende e tappeti ascoltiamo, come in trance, canti sfacciati in lingue sconosciute, dondolando la testa al tempo. Cerchiamo di relegare ad un angolo della mente la possibilità che sia soltanto un’altra trappola per turisti perfettamente congegnata.
L’autista del bus accetta di ricavare un parcheggio temporaneo da un piccolo spiazzo di sabbia sul bordo della strada. Con la solenne consapevolezza di un momento che scuote la coscenza e brucia nella memoria, ci stendiamo per qualche minuto su un pavimento morbido, gelato. Lontani dalle luci della città che ancora starà cenando e chiacchierando, la colonna sonora perfetta accompagna quello che ha la sensazione di essere, almeno in quell’istante, il nostro primo vero incontro con un universo sterminato, sconosciuto e affascinante. Domani si torna sulla strada.