Incorporati nel nostro corpo
“Ogni qualvolta due persone si incontrano ci sono in realtà sei persone presenti. Per ogni uomo ce n’è uno per come egli stesso si crede, uno per come lo vede l’altro ed uno infine per come egli è realmente.”
– William James
Avere sedici anni non è mai stato semplice per nessuno.
Avere sedici anni a Berlino nel 1936 lo era ancora meno.
Specialmente se il destino aveva riservato per te la nascita in una famiglia di origine ebraica.
Helmut Newton scoprì in Germania l’amore per la fotografia, ma riuscì a coltivarlo soltanto rifugiandosi a Singapore, poi in Australia e poi ancora a Parigi.
Newton capì ben presto che la straordinarietà del corpo consiste nell’intrinseca capacità di manifestare ciò che le parole non sono in grado di esprimere. Destinato a diventare uno dei più celebri fotografi del XX secolo, dedicò la sua carriera artistica alla ricerca della perfezione, attraverso i suoi occhi incarnata nel corpo femminile. Tra le sue opere non troverete scatti istantanei, ma ragionata elaborazione mentale, studio profondo della natura femminile volto alla cattura di emozioni edonistiche.
Alla stregua di Edgar Degas che nel secolo precedente s’innamorò dei movimenti leggeri e voluttuosi delle ballerine, quali perfetta sintesi di coordinazione, così Newton tentò di intrappolare nel suo obiettivo donne immortali, la cui perfezione non lascia spazio alle debolezze, dove il sorriso resta estraneo alla macchina e il corpo femminile appartiene ad un essere superiore, in grado di sollecitare un rivendicato erotismo. Come se tutti noi fossimo incorporati nel nostro corpo.
Se la concezione newtoniana del corpo ha lasciato impronte paradigmatiche nel presente contemporaneo, non si può che parlare di rivoluzione artistica quando si vede ergersi il corpo intellettuale di pasoliniana espressione. Quello che Pasolini proietta violentemente sullo schermo cinematografico in Salò o le 120 giornate di Sodoma è un corpo mercificato, mero oggetto in balìa di un Potere incontrollabile. Pellicola evergreen datata 1975, Salò è tutto meno che un film per tutti: è un pugno allo stomaco, un percorso fisicamente doloroso tra l’Antinferno, il Girone delle Manie, il Girone della Merda e quello del Sangue.
Esplicita denuncia dello sfacelo culturale ed intellettuale che trascinava l’Italia in pasto ad un Potere – magistralmente reso attraverso la metafora della mercificazione dei corpi – brutale, violento e costantemente impunito. E se gli schemi razionali vanno perdendosi nella pellicola pasoliniana, ecco che ciò che rimane protagonista assoluto dello schermo è soltanto il corpo, che (come dichiarò l’autore stesso) è “una terra non ancora colonizzata dal potere”. Facendosi, dunque, portatore di una nuova identità intellettuale proprio negli anni di inaudita evoluzione artistica della civiltà italiana, Pasolini lascia mente e corpo profondamente interconnessi, indispensabilmente simbiotici.
E se il corpo di cui siamo stati dotati alla nascita è esclusivamente unico, vale la pena notare che esso si rivela funzionante soltanto grazie alla coordinazione di diverse e molteplici parti, sincronia perfetta di un meccanismo inimitabile. Eppure, dopotutto, credo sia ancora lecito chiedersi che cosa accade quando anche solo una di queste parti smette di funzionare?
Tema che manda in visibilio letterati e poeti, cantautori e comuni mortali, è anche questo che si ritrova nelle parole di Alanis Morissette, in un percorso postadolescenziale di una cantante trovatasi ad affrontare più volte la drammatica insoddisfazione di vivere intrappolati nel proprio corpo. Se è vero che il nostro intero apparato psicofisico non è che l’involucro di ciò che siamo veramente, è altrettanto vero che non possiamo separarcene né smettere di domandarci – sulle note di Joining you – “if we were our bodies”…?
La mia risposta è no, grazie a Dio (o chi per Lui), non lo siamo. Non siamo il nostro corpo, e non siamo riducibili a mera carne e sangue. Eppure siamo perdutamente condannati a condividere con esso un’esistenza a termine.
Riconoscerlo come nostro, in modo eterno ed esclusivo, è un passo imprescindibile per capire la realtà circostante. Del resto, lo stesso Daniel Pennac nel suo ultimo romanzo Storia di un corpo, ricorda al lettore di fare molta attenzione alla “nostra macchina per essere”, perché per quanto sia “un’invenzione della vostra generazione”, esso nondimeno resta “intatto”: “più lo si analizza, questo corpo moderno, più lo si esibisce, meno esso esiste”.
[…] e senza alcun nerbo, confezionata per un melò che sposta l’attenzione dal punto centrale, il corpo. Tutta l’azione è concentrata fra gli sguardi timidi del protagonista ed il mondo esterno. […]