«In Italia si dorme con le porte aperte» | Cosa imparare da Leonardo Sciascia
Da Sciascia ho imparato questo: uno Stato che elegga l’ordine e la sicurezza come valori supremi – non più come ordinari compiti tecnico-amministrativi ma come fini ultimi della (propaganda) politica – è sempre uno Stato illiberale, debole e ipocrita.
« Lei sa come la penso » disse il procuratore generale. Perfetto cominciare: di chi non si sa come la pensa, e se la pensa, e se pensa.
Così si alza il sipario sulla prima scena di “Porte aperte”, romanzo scritto nel 1987 e ambientato a Palermo in pieno regime fascista. La scena allestita è quella di un “piccolo giudice” a latere di Corte d’Assise chiamato a giudicare il caso di un uomo accusato di tre efferati omicidi, commessi nel giro di poche ore: l’omicidio della moglie, quello del collega che aveva preso il suo posto nell’ufficio da cui era stato licenziato e quello dell’uomo che, a capo di quell’ufficio, ne aveva deciso il licenziamento.
La vicenda del nostro “piccolo giudice” riprende un caso di cronaca realmente accaduto alla fine degli anni ’30 – quello del giudice Salvatore Petrone (nato, come Sciascia, a Racalmuto) ben riassunto in questo articolo di Raffaele Bertoni – ed in prima battuta può essere interpretata come una narrazione sul tema della pena di morte, perché è ad essa che l’imputato rischia di essere condannato.
Ma, poiché di Sciascia trattasi, ciò che è semplice è più complesso del complesso stesso.
Mi sono chiesta, ad esempio, che cosa potesse aver spinto Sciascia ad affrontare il tema della pena di morte nel 1987: quando ormai, benché ancora formalmente in vigore nel codice penale militare per il tempo di guerra (dal quale verrà abolita nel 1994), di pena di morte – in Italia – nessuno sembra più discutere. La Costituzione del ’48 parla chiaro.
Senza considerare che – prima che le leggi fascistissime e il codice penale Rocco la reintroducessero per il regime – già si era arrivati alla fine del XIX secolo a considerare la pena di morte come un assassinio di Stato e un abominio della ragione umana.
Il titolo del romanzo, poi, mi è sembrato voler accendere una seconda spia luminosa e volermi indicare come tema centrale della storia non tanto la pena di morte in sé ma il fine che lo Stato mira a raggiungere attraverso la (propaganda della) pena di morte, utilizzata come strumento ideologico e di governo:
« Qui, lei sa, corre l’opinione che da quando c’è il fascismo si dorme con le porte aperte… ».
« Io chiudo sempre la mia » disse il giudice.
« Anch’io: ma dobbiamo riconoscere che le condizioni della sicurezza pubblica, da quindici anni a questa parte, sono notevolmente migliorate. Ora, quali che siano le nostre opinioni sulla pena di morte, dobbiamo ammettere che il ripristino serve a ribadire nella testa della gente l’idea di uno Stato che si preoccupa al massimo della sicurezza dei cittadini; l’idea che davvero, ormai, si dorma con le porte aperte ».
Non bisogna dimenticare, infine, che in Sciascia il fatto è sempre un pretesto per descrivere il contesto: e se in “Porte aperte” il fatto è lo svolgersi di un processo che sembra destinato a concludersi con una condanna alla pena capitale, il contesto è quello di uno Stato che fa dell’ordine e della sicurezza i suoi vessilli, i suoi valori ultimi e supremi.
Vengo al punto. Un Stato di questo tipo – chiamiamolo lo Stato dell’Ordine e della Sicurezza – è sempre, innanzitutto, uno Stato autoritario e illiberale. Se l’ordine e la sicurezza diventano il fine politico ultimo e più alto, fallisce allora l’idea di comunità: e dove fallisce questa fallisce anche l’idea di libertà, perché “ordine” – nella bocca del potere – non vuol dire mai “rispetto”, ma sempre e solo “controllo”. Rimaniamo allo stadio del Leviatano di Thomas Hobbes – lo Stato costituito idealmente sulla base di un patto sociale tra gli uomini per uscire dallo stato di natura della guerra perenne di tutti contro tutti (“homo homini lupus”) – e non costruiamo uno Stato-comunità.
Ma c’era, in qualcuno dei giurati, un qualche segno, appena percepibile, di umana tenerezza. Non verso l’imputato, ché nessuno poteva mai riuscire a provarne; ma verso la vita, le cose della vita, l’ordine e il disordine della vita.
Uno Stato del genere è anche uno Stato debole: che ha bisogno di schiacciare, di annientare, cioè di ricorrere alla violenza fisica suprema e inappellabile della morte, per garantirsi la sopravvivenza e l’autorità. Di quanta forza politica e sociale può essere dotato uno Stato che non ha altri strumenti – non il diritto, non la ragione, non la compassione, non la giustizia – se non quelli della bruta violenza fisica sfogata sull’individuo; che non ha altri strumenti, se non il terrore, per ingannare i cittadini dell’ordine e della sicurezza che finge di elargire; che appena si sente “offeso” nella sua “persona” non ha altre vie se non quella della follia della violenza? Alla vittima, e forse anche alla folla, si può riconoscere il diritto di essere feroci nei propri sentimenti: non allo Stato, che ha l’obbligo di pensare secondo ragione (e non è un caso se il Palazzo di Giustizia di “Porte aperte” è lo stesso edificio che fu dell’Inquisizione).
Lo Stato dell’Ordine e della Sicurezza è, infine, uno Stato iprocrita: sempre attraverso la realtà e la metafora delle porte, Sciascia dimostra come al posto delle porte aperte di casa – garantite dalla propaganda dell’ordine – ci sia un ben altro tipo di sistema: “(…) le vere porte aperte della città essendo quelle che soltanto l’amicizia apriva”.
Ma era, nel sonno, il sogno delle porte aperte; cui corrispondevano nella realtà quotidiana, da svegli, e specialmente per chi amava star sveglio e scrutare e capire e giudicare, tante porte chiuse.
La pena di morte e il fascismo – le estreme espressioni dell’annientamento dell’uomo e della coscienza comunitaria (e umanitaria) – sono così strumenti nelle mani della Storia: le sue “iperboli reali” per raccontare anche la realtà quotidiana.
La voce di Sciascia è un vortice denso, grumoso, pastoso. Un vortice dorato e oscuro al tempo stesso: la sua prosa è solenne e austera insieme, una voce che tutto, ugualmente e per questo, riesce a dire; una prosa al tempo stesso lineare e sofisticata, contorta e affusolata, che mai si attarda sul superfluo, ma tesse una trama che tutto dice, e poi tace.
Titolo | Porte aperte
Autore | Leonardo Sciascia
Casa editrice | Adelphi
Anno | 1987
Pagine | 110