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«In Italia si dorme con le porte aperte» | Cosa imparare da Leonardo Sciascia

Gian Maria Volonté nel film di Gianni Amelio "Porte aperte" (1990)

Da Sciascia ho imparato questo: uno Stato che elegga l’ordine e la sicurezza come valori supremi – non più come ordinari compiti tecnico-amministrativi ma come fini ultimi della (propaganda) politica – è sempre uno Stato illiberale, debole e ipocrita.

« Lei sa come la penso » disse il procuratore generale. Perfetto cominciare: di chi non si sa come la pensa, e se la pensa, e se pensa.

Così si alza il sipario sulla prima scena di “Porte aperte”, romanzo scritto nel 1987 e ambientato a Palermo in pieno regime fascista. La scena allestita è quella di un “piccolo giudice” a latere di Corte d’Assise chiamato a giudicare il caso di un uomo accusato di tre efferati omicidi, commessi nel giro di poche ore: l’omicidio della moglie, quello del collega che aveva preso il suo posto nell’ufficio da cui era stato licenziato e quello dell’uomo che, a capo di quell’ufficio, ne aveva deciso il licenziamento.

La vicenda del nostro “piccolo giudice” riprende un caso di cronaca realmente accaduto alla fine degli anni ’30 – quello del giudice Salvatore Petrone (nato, come Sciascia, a Racalmuto) ben riassunto in questo articolo di Raffaele Bertoni – ed in prima battuta può essere interpretata come una narrazione sul tema della pena di morte, perché è ad essa che l’imputato rischia di essere condannato.

Ma, poiché di Sciascia trattasi, ciò che è semplice è più complesso del complesso stesso.

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Mi sono chiesta, ad esempio, che cosa potesse aver spinto Sciascia ad affrontare il tema della pena di morte nel 1987quando ormai, benché ancora formalmente in vigore nel codice penale militare per il tempo di guerra (dal quale verrà abolita nel 1994), di pena di morte – in Italia – nessuno sembra più discutere. La Costituzione del ’48 parla chiaro.

Senza considerare che – prima che le leggi fascistissime e il codice penale Rocco la reintroducessero per il regime – già si era arrivati alla fine del XIX secolo a considerare la pena di morte come un assassinio di Stato e un abominio della ragione umana.

Il titolo del romanzo, poi, mi è sembrato voler accendere una seconda spia luminosa e volermi indicare come tema centrale della storia non tanto la pena di morte in sé ma il fine che lo Stato mira a raggiungere attraverso la (propaganda della) pena di morte, utilizzata come strumento ideologico e di governo:

« Qui, lei sa, corre l’opinione che da quando c’è il fascismo si dorme con le porte aperte… ».
« Io chiudo sempre la mia » disse il giudice.
« Anch’io: ma dobbiamo riconoscere che le condizioni della sicurezza pubblica, da quindici anni a questa parte, sono notevolmente migliorate. Ora, quali che siano le nostre opinioni sulla pena di morte, dobbiamo ammettere che il ripristino serve a ribadire nella testa della gente l’idea di uno Stato che si preoccupa al massimo della sicurezza dei cittadini; l’idea che davvero, ormai, si dorma con le porte aperte ».

Non bisogna dimenticare, infine, che in Sciascia il fatto è sempre un pretesto per descrivere il contesto: e se in Porte aperte” il fatto è lo svolgersi di un processo che sembra destinato a concludersi con una condanna alla pena capitale, il contesto è quello di uno Stato che fa dell’ordine e della sicurezza i suoi vessilli, i suoi valori ultimi e supremi.

Vengo al punto. Un Stato di questo tipo – chiamiamolo lo Stato dell’Ordine e della Sicurezza – è sempre, innanzitutto, uno Stato autoritario e illiberale. Se l’ordine e la sicurezza diventano il fine politico ultimo e più alto, fallisce allora l’idea di comunità: e dove fallisce questa fallisce anche l’idea di libertà, perché “ordine” – nella bocca del potere – non vuol dire mai “rispetto”, ma sempre e solo “controllo”. Rimaniamo allo stadio del Leviatano di Thomas Hobbes – lo Stato costituito idealmente sulla base di un patto sociale tra gli uomini per uscire dallo stato di natura della guerra perenne di tutti contro tutti (“homo homini lupus”) – e non costruiamo uno Stato-comunità.

Ma c’era, in qualcuno dei giurati, un qualche segno, appena percepibile, di umana tenerezza. Non verso l’imputato, ché nessuno poteva mai riuscire a provarne; ma verso la vita, le cose della vita, l’ordine e il disordine della vita.

Uno Stato del genere è anche uno Stato debole: che ha bisogno di schiacciare, di annientare, cioè di ricorrere alla violenza fisica suprema e inappellabile della morte, per garantirsi la sopravvivenza e l’autorità. Di quanta forza politica e sociale può essere dotato uno Stato che non ha altri strumenti – non il diritto, non la ragione, non la compassione, non la giustizia – se non quelli della bruta violenza fisica sfogata sull’individuo; che non ha altri strumenti, se non il terrore, per ingannare i cittadini dell’ordine e della sicurezza che finge di elargire; che appena si sente “offeso” nella sua “persona” non ha altre vie se non quella della follia della violenza? Alla vittima, e forse anche alla folla, si può riconoscere il diritto di essere feroci nei propri sentimenti: non allo Stato, che ha l’obbligo di pensare secondo ragione (e non è un caso se il Palazzo di Giustizia di “Porte aperte” è lo stesso edificio che fu dell’Inquisizione).

Lo Stato dell’Ordine e della Sicurezza è, infine, uno Stato iprocrita: sempre attraverso la realtà e la metafora delle porte, Sciascia dimostra come al posto delle porte aperte di casa – garantite dalla propaganda dell’ordine – ci sia un ben altro tipo di sistema: “(…) le vere porte aperte della città essendo quelle che soltanto l’amicizia apriva”.

Ma era, nel sonno, il sogno delle porte aperte; cui corrispondevano nella realtà quotidiana, da svegli, e specialmente per chi amava star sveglio e scrutare e capire e giudicare, tante porte chiuse.

Sciascia fotografato da Ferdinando Scianna (Siviglia, 1984)

La pena di morte e il fascismo – le estreme espressioni dell’annientamento dell’uomo e della coscienza comunitaria (e umanitaria) – sono così strumenti nelle mani della Storia: le sue “iperboli reali” per raccontare anche la realtà quotidiana.

La voce di Sciascia è un vortice denso, grumoso, pastoso. Un vortice dorato e oscuro al tempo stesso: la sua prosa è solenne e austera insieme, una voce che tutto, ugualmente e per questo, riesce a dire; una prosa al tempo stesso lineare e sofisticata, contorta e affusolata, che mai si attarda sul superfluo, ma tesse una trama che tutto dice, e poi tace.

 

Titolo | Porte aperte

Autore | Leonardo Sciascia

Casa editrice | Adelphi

Anno | 1987

Pagine | 110

 

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