Le città invisibili | Il viaggiatore visionario secondo Italo Calvino
Italo Calvino aveva l’abitudine di tenere sempre in tasca un foglietto piegato in quattro parti. Ogni volta che sentiva il bisogno di annotare un pensiero, una riflessione o un’idea utilizzava un quarto di quel foglietto: quando esso era zeppo di parole e non vi era più alcuno spazio lo riponeva in una cartella, e passava ad un altro.
In questo modo, per sua stessa ammissione, sono nate anno dopo anno Le città invisibili, una serie di descrizioni brevissime di città tutte inventate che si susseguono una dietro l’altra come fotografie in un album; l’autore le ha immaginate a gruppi, ogni gruppo legato da un elemento comune – la memoria, il desiderio, i segni, gli occhi, gli scambi… – e poi le ha sparpagliate e alternate tra di loro, come fossero fili di colori diversi che si intrecciano senza confondersi. Il racconto avviene attraverso la voce di Marco Polo, che dialogando con l’Imperatore dei Tartari Kublai Kan gli descrive il suo stesso impero, visitato nel corso di lunghi viaggi.
Se Calvino fosse vissuto oggi, si sarebbe probabilmente stupito di quanto ciò che per lui era un’intuizione letteraria abbia scavalcato gli steccati dell’immaginazione per irrompere nel quotidiano, nel reale – seppure certo, un reale parallelo: intere città invisibili sono infatti state costruite da allora, città globali e virtuali di cui Facebook e Twitter rappresentano solo gli esempi più famosi. Due sono, secondo me, le componenti che accomunano le città di cui parla Calvino alle “città” di cui abbiamo conoscenza diretta oggi, parlando di social network: una attiene al concetto di spazio, e l’altra al concetto di felicità.
Comincerò dalla seconda. Gli agglomerati urbani immaginati nel libro non hanno un umore costante, si può dire che non siano né città contente, né città tristi: lo stesso Kan, parlando con Marco Polo, si dimostra ora consapevole della decadenza del suo impero – che “marcisce come un cadavere nella palude” – ora sopraffatto dall’euforia – “Eppure io so”, dice, “che il mio impero è fatto della materia dei cristalli, e aggrega le sue molecole secondo un disegno perfetto”.
Questa ambiguità, questa oscillazione di giudizio esprime un dubbio di fondo sulla bontà dell’impero immaginato, di questo fenomeno di realtà “surreale”: e tale medesimo dubbio può essere esteso alle nostre città invisibili, che ugualmente contengono angoli luminosi e zone squallide, anticipi della fine della civiltà e residui ostinati di grandezza.
Lo spazio che intendo, invece, è uno spazio vuoto: è ciò che resta tutt’intorno sia alle città di Calvino sia ai nostri social. Di questo spazio si può fare ciò che si vuole, poiché esso non è fisico ma mentale, costruito della loro stessa materia immaginifica: una sorta di prolungamento offerto in dote a ciascun “abitante”, che può girarci in mezzo col pensiero, perdercisi, fermarsi a riflettere o a riposare, scappar via di corsa.
Le città narrate da Marco Polo e così attentamente ascoltate dal Gran Kan sono il simbolo di una realtà – non solo urbana evidentemente – complessa e disordinata, che l’autore cerca di strutturare con l’aiuto del lettore; quest’ultimo si trova dunque a giocare con un’opera dai molti piani di lettura, e per la quale “il senso è come un’eco in una valle piena di grotte che suona ora qua ora là, pur essendo sempre lo stesso”, come scriverà Pier Paolo Pasolini in Descrizioni di descrizioni: c’è un ordine, un sentiero nascosto per ciascuno, e ognuno è libero di scegliere il proprio.
Anche lo stile è giocoso, fluido e cristallino: non una increspatura si trova in questo fiume di parole che scorre senza mai incontrare ostacoli.
E a proposito di leggerezza di stile, essa suggerisce una piccola considerazione finale. La conclusione del libro è certo magnifica: Kublai Kan, avvilito per le molte città che già minacciano la stabilità del suo impero, si lascia andare all’amarezza: “L’ultimo approdo”, dice, “non può essere che la città infernale”. E Marco Polo risponde: “ L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme.
Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.
Tuttavia, un altro punto del libro è altrettanto interessante: nel capitolo quinto, proprio a metà, tira una certa aria di leggerezza, le città sono sottili, aeree. E lì, forse, c’è un’altra “morale”: quella che di lì a pochi anni verrà raccontata nel bellissimo capitolo dedicato proprio alla leggerezza, nelle Lezioni americane; quella “leggerezza della pensosità” che si oppone alla “leggerezza della frivolezza” e “fa apparire quest’ultima come pesante e opaca” trova una anticipazione qui, ne Le città invisibili. E rappresenta una delle eredità letterarie migliori di Italo Calvino.
Ginevra Ripa
Titolo | Le città invisibili
Autore | Italo Calvino
Editore | Mondadori
Collana | Oscar
Anno | 2013
I edizione Oscar | 1993
L’ha ribloggato su EN TRADUISANT TRANSLATIONe ha commentato:
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