Il suono del silenzio
Vi è mai capitato di urtare una bottiglia di vetro abbandonata sul ciglio della strada e dal rumore rendervi conto di quanto fosse silenziosa la notte?
Ed eccovi lì, in solitudine, mentre camminate nella flebile luce di un lampione: Hello darkness, my old friend. Il silenzio che vi circonda è così totale, così disarmante, che non potete far altro che cedere ad un brutale vis-à-vis con voi stessi, dopo che eravate quasi riusciti ad evitarlo per tutta la giornata, trascorsa nel traffico dell’ufficio ad elargire sorrisi.
Che sia stata scritta da Paul Simon per rendere omaggio a John F. Kennedy o meno, che il verso iniziale sia stato composto al buio nel bagno dell’abitazione di Simon o che riusciate ad associarla soltanto ad un imberbe Dustin Hoffman sdraiato in piscina, poco importa: The Sound of Silence è una pietra miliare della musica, un pezzo evergreen per ogni generazione. Eppure la malinconia del testo e la delicatezza della melodia possono ingannare l’orecchio distratto, rischiando di celare quella che è la vera essenza della canzone: una denuncia verso l’incapacità dell’uomo di comunicare.
Sembra paradossale parlare di difficoltà di comunicazione nel 2013, quando non riusciamo più a bere un caffè senza postarne la foto su almeno tre diversi social network (contemporaneamente e ancor prima che si raffreddi). Eppure quanti osano oggi rompere davvero il “suono del silenzio”, quanti riescono a parlare con il mero scopo di comunicare?
Che il silenzio possa talvolta essere incredibilmente eloquente è indubbio: così come il silenzio di malcelata diffidenza tra due sconosciuti non è confrontabile al silenzio che si frappone tra un complice scambio di sguardi. Forse oggi fatichiamo a credere che l’assenza di parole non sia sinonimo di mancanza di comunicazione, abituati come siamo a sentire tutto e a non ascoltare nulla.
Ed è questa la forma mentis a cui va incontro un film come The Artist, impavida pellicola muta datata 2012 che si traduce in un tributo al cinema silente che regnava indisturbato quasi un secolo prima. Contrariamente alle aspettative, la regia di Hazanavicius riesce a catturare il pubblico moderno, indubbiamente acerbo verso il genere muto, ma che forse si è riconosciuto nelle difficoltà di George Valentin, protagonista di questa agrodolce commedia, che si sente d’improvviso appartenere ad un’epoca già passata, trascorsa ad una velocità molto più elevata della sua, rendendolo incapace di cavalcare il presente.
È impossibile non provare un senso di forte affinità con Valentin mentre, sul finale della pellicola, lo si vede sforzarsi di andare avanti, di superare il muro del silenzio, di evolversi nella direzione in cui il mondo si stava avviando. E forse è proprio per questo che The Artist risulta tutt’altro che anacronistico, sintesi perfetta di un disagio comunicativo che, nonostante tutti i mezzi tecnologici possibili, contraddistingue il genere umano.
A volte siamo circondati da un silenzio così assordante che ci schiaccia sotto il peso di parole non dette e ci porta alle estreme conseguenze di uno sfogo senza limiti, legandoci indissolubilmente alla forza del linguaggio. Ed è esattamente di questo che tratta l’opera teatrale di Gabriel García Márquez: Diatriba d’amore contro un uomo seduto, in cui l’alterco tra due coniugi si traduce in un monologo sfrenato della moglie, esasperata dal silenzio inerme del marito.
Esistono silenzi in grado di uccidere, di annientare con il loro perpetrarsi nel tempo anche le più solide emozioni. Il silenzio di quell’uomo seduto in poltrona ha regalato a Graciela un matrimonio felice solo per chi vuole vederlo così, nella drammatica quotidianità di una vita comune. Ed è soltanto quando il silenzio inizia a sembrare interminabile che ci immedesimiamo in quell’irruenza che sostiene Graciela sul palco per tutto il monologo, che ritroviamo quella “sana” rabbia che cerca di risvegliare parole assopite.
Eppure esistono silenzi ancora più ignobili, silenzi che andrebbero visti come delitti del genere umano, candidati ad ingrossare le fila dell’indifferenza. Sono i silenzi sui crimini di guerra, sui 4,5 milioni di Siriani attualmente sfollati, sugli altri 1,5 milioni rifugiati nei Paesi vicini, sulle vittime arrivate ormai a 100.000 con maggioranza di civili (tra cui 8.000 bambini circa) e decine di migliaia di dispersi *. Immagino che fosse con quella stessa rabbia di cui parla Márquez, esponenzialmente considerata, che il portavoce di UNICEF Italia, Andrea Iacomini, abbia preso la parola allo scorso Festival Internazionale del Giornalismo. Immagino che, talvolta, il silenzio sia la soluzione più a buon mercato per scivolare nell’ombra ed evitare di prendere posizioni, di esporsi, di mettersi in gioco davvero.
Ma come si rompe un silenzio?
Non so se lo stiamo facendo nel modo opportuno, ma SALT Editions è anche un tentativo di dare voce ai nostri pensieri, una ricerca di voci che si uniscano al nostro coro, una presa di posizione che non vuole andare contro nessuno, ma che non vuole rischiare di cadere nell’oblio del “non detto”.
Questo numero è un invito ad affacciarvi alla nostra scatola cranica, anche se poi assomiglia soltanto vagamente a ciò che riusciamo davvero a trasformare in lettere comprensibili all’umano linguaggio.
Ma voi guardateci dentro lo stesso.
Magari vedete qualcosa che vi piace.
*dati aggiornati al 24 Aprile 2013, rilasciati dal Governo Francese.