Il Sarcofago di Spitzmaus e altri tesori | L’assurda collezione di Wes Anderson e Juman Malouf
Quando ho letto che Wes Anderson, insieme alla sua compagna Juman Malouf, avrebbe esposto una collezione di tesori alla Fondazione Prada di Milano ho immaginato svariate forme che questa “Wunderkammer” – questa camera delle meraviglie – avrebbe potuto assumere.
Infatti se i film di Wes Anderson si distinguono certamente per uno stile peculiare e riconoscibilissimo, iterato di volta in volta, è anche vero che le ambientazioni, le scenografie, l’intero ambaradan che compone il character design dei personaggi delle sue opere tocca le sponde di mondi lontanissimi e all’interno di uno stesso film siamo bombardati dalla coesistenza di realtà sociali, geografiche -e biologiche persino- diversissime tra loro.
Non ci stupiamo di vedere stravaganze tra il conturbante e il comico in una famiglia alto borghese americana, biologi che cacciano mostri marini, cani parlanti in scenari post apocalittici, galoppini indiani che lottano contro nazisti, e via dicendo (se avete visto qualche film di Wes sapete che l’elenco potrebbe continuare per qualche pagina); insomma i film di Wes Anderson sono un carnevale grottesco in cui, finché la sua mano e il suo gusto sono visibili, tutto è valido.
Guardandoli accettiamo di entrare in storie picaresche in cui una marcata impronta viene data da una vasta quantità di oggetti, di suppellettili, di elementi accessori che, senza apparire più di tanto, sostengono l’estetica dell’intero film. La fascia sulla testa di Richie Tenembaum, le decorazioni del Grand Budapest e l’opulenza decadente dei suoi ospiti, la fauna subacquea e gli strumenti di verniana memoria di Steve Zissou, infine i quadri che nascono dalle sue stesse inquadrature: Wes Anderson senza la sua maniacale cura per il particolare più insignificante non sarebbe Wes Anderson.
Questo gusto, questa affezione del regista e di Juman Malouf per l’oggetto, magnifico o insignificante che sia, è sicuramente una delle basi della mostra “Il Sarcofago di Spitzmaus e altri tesori”, dove trovano posto 538 opere dalle tipologie, dalle epoche e dalle provenienze più svariate. Ma c’è di più, molto di più.
Le Wunderkammer erano stanze, talvolta interi palazzi, in cui la collezione dei tesori di un nobile, o più spesso di un sovrano, veniva esposta affinché anche altri al di fuori dei membri della famiglia reale potessero vederli: è il caso di Ferdinando II d’Asburgo – principale ispiratore della mostra – che insieme alla moglie Philippine Welser fece costruire il castello di Ambras a Innsbruck per dare una degna abitazione ai suoi tesori.
Anderson e Malouf tuttavia si sono trovati di fronte a due problemi: quali oggetti e quadri scegliere per dar forma alla propria collezione e quale forma dare a questa collezione, ovvero quale criterio usare per disporre le opere.
Secondo chi scrive il piacere principale della visita sta proprio nella ricerca di questo criterio che, se talvolta risulta evidentissimo, altre volte è solo alluso: sta proprio al visitatore cercare di capire il motivo dell’accostamento di opere che sembrano, a un primo sguardo, non avere alcun legame.
“Il Sarcofago di Spitzmaus e altri tesori” infatti è soprattutto un’esperienza interattiva, una ricerca continua nel labirinto di stanze, un vagare tra le 538 opere esposte in cui il bisogno di trovare un fil rouge si alterna con l’osservazione disincantata di oggetti insignificanti, senza che vi sia intento didattico o una logica alle spalle.
La natura interattiva dell’esposizione è suggerita anche dalla mancanza di didascalie accanto alle opere: all’entrata il visitatore riceve un libretto con una mappa della Wunderkammer sulla quale sono riportati dei numeri che corrispondono alle opere, elencate nelle pagine che seguono. La visita si trasforma dunque in una ricerca in cui si è costretti ad essere spettatori attivi.
La disposizione dei tesori accresce l’illusione di trovarsi realmente in un palazzo. Il piano terra del Podium del museo è infatti suddiviso in due aree distinte: una metà è costituita da piccole stanze che racchiudono oggetti e quadri secondo un criterio tematico come colore, materiale, soggetto ritratto, funzione del manufatto, dimensione; ricorda l’interno di un palazzo nei cui corridoi passeggiano i quadri di nobili di ogni forma e stazza, tra i quali spicca un Duca Giovanni Federico di Tiziano. L’altra metà è costruita come un giardino all’italiana, dove dunque sono raccolti oggetti che ritraggono flora e fauna, oltre che veri e propri reperti naturali e archeologici in teche disposte a mo’ di siepi.
Al centro dell’ideale palazzo, come nelle piramidi egizie, il sarcofago del sovrano. Ironico che all’interno del sarcofago di questo palazzo, scrigno di tesori stravaganti, che in altri contesti museali sarebbero forse passati inosservati, ci sia l’emblema dell’inutilità: un toporagno.
La chiave per la mostra, come dice il titolo, sta proprio nel sarcofago dello Spitzmaus: la celebrazione dell’inutile, del superfluo, del bello fine a se stesso, della preziosità dei dettagli, ma anche del grottesco, del mostruoso, del cringe. Sono molte infatti le opere che provocano uno straniamento:
è il caso del trittico dedicato alla “famiglia degli irsuti“, quadri raffiguranti aristocratici dal volto esageratamente peloso, o della “stanza dei bambini”, dove sono raccolti in tre piccole pareti una ventina di quadri inquietanti raffiguranti bambini vestiti da nobili.
La perfezione e l’opulenza racchiusa in manufatti particolarmente piccoli è un’altra caratteristica ricorrente: un’intera stanza è dedicata a decine di busti alti al massimo dieci centimetri di uomini illustri, scolpiti in pietre preziose. Un’altra è un’esposizione di custodie di ogni forma e dimensione, per ogni tipologia di oggetto: armi, croci, calici, bibbie, a loro modo sarcofagi, scrigni.
Un’altra caratteristica che viene sottolineata nella scelta degli accostamenti è il bisogno dell’uomo, talvolta inconsapevole, di riprodurre la natura, contenerla, misurarla, ricrearla, riusarla, celebrarla come è celebrato il toporagno.
La zona che richiama il giardino è costruita secondo una serie di accoppiamenti tra reperti archeologici e biologici con manufatti che ricordano quei tesori naturali posti al loro fianco, o con manufatti in cui dei pezzi di natura sono utilizzati per raffigurarne nuova, come il modello di un albero proveniente dalle isole Molucche le cui foglie sono fatte di piume d’uccello, o il quadro dove è la flora a comporre il volto di un uomo, di un imitatore dell’Arcimboldo. Gli oggetti e i dipinti si susseguono dunque in un vortice di suggestioni dove la natura viene scomposta, richiamata, allusa.
Parte integrante della natura è anche il Cosmo e il suo mistero, e dunque il divino: al centro del giardino, dove confluiscono i blocchi tematici legati dal tema Natura, è posta una struttura nera, via di mezzo tra una colonna di una chiesa e un totem, che ricorda vagamente il Monolito di 2001:Odissea nello Spazio, emblema dell’inconoscibile. Con le teche incastonate in questo tempio nero, posto non a caso esattamente di fronte al Sarcofago dello Spitzmaus, Anderson e Malauf hanno toccato forse il vertice della mostra creando, tramite il puro accostamento, una nuova opera d’arte. Calibri, meridiane, illustrazioni di strumenti di tortura e di cattedrali, lettere di indulgenza, residui di meteoriti vecchi 5 miliardi di anni, idoli di esseri immortali dalla Cina, sono disposti nelle pareti che incorniciano le due opere nascoste all’interno del monolito: la Donna Anziana di Balthasar Denner (1721) e una bussola in gesso e ottone incastonata nella pietra.
Non c’è la volontà di dare un insegnamento bensì quella di lasciare una traccia lavorando sui nostri archetipi, sugli ingranaggi dell’inconscio, per creare una suggestione, un barbaglio, direbbe Montale. Rimane la vaga percezione che l’uomo ha avuto del cosmo e del divino: il tentativo di misurarlo tramite strumenti e di ottenere perdono tramite preghiere e monumenti, ma la sola certezza di fronte a tale vastità sembra averla il soggetto del quadro di Denner, la vecchia che mesta pare pensare alla sua sorte prossima guardando il sarcofago del toporagno.
Il termine del girovagare per la Wunderkammer di Wes Anderson e Jumar Malouf lascia di sicuro sgomenti, alienati, siccome inconsapevolmente le opere destano il nostro bisogno di catalogare, di trovare un senso alle cose, di creare simmetrie ove non sempre è possibile. Ma i due si divertono proprio a vederci disperati nel tentativo di creare queste impossibili architetture all’interno della loro ragnatela di corrispondenze: non è un caso che la struttura della mostra permetta spesso di osservare i visitatori tramite il retro delle teche o per mezzo di spazi vuoti nelle pareti; parte del divertimento sta nel vedere gli altri che vagano persi di stanza in stanza, che si piegano sulle teche per scoprire manufatti messi volontariamente troppo in basso o nascosti dietro altre pareti.
La mostra alla Fondazione Prada di Milano è terminata il 13 gennaio ed è alla sua seconda realizzazione dopo la presentazione al Kunsthistorisches Museum di Vienna dello scorso anno.
Andarci, se lo Spitzmaus dovesse ricapitare da queste parti, è d’obbligo, per perdersi in questo castello incantato di Atlante dove l’unica formazione richiesta è la capacità di lasciarsi meravigliare anche dalla più insignificante delle cose.