Il Diavolo veste Made in Italy
“Chi lo dice che la rivoluzione non
l’abbiano fatta le minigonne di Mary Quant
molto più dei cortei studenteschi del ‘68?”
Made in Italy è una certificazione di provenienza che è ormai diventata sinonimo di “moda italiana”. La sua affermazione nel mondo inizia alla fine degli anni ‘70 a Milano, raccontata dalla serie TV omonima (Made in Italy, appunto) attraverso la storia di Irene Mastrangelo (esordio attoriale della modella Greta Ferro), una giovane ragazza dai ricci capelli sbarazzini e dai colori mediterranei che lascia l’università per lavorare nella rivista di moda Appeal – non senza un certo disappunto da parte del padre, operaio pugliese emigrato nella città meneghina che non perde occasione di ricordare alla figlia ingrata i sacrifici che fa per permetterle di studiare.
Ideata da Camilla Nesbitt (produttrice di Taodue), girata da Luca Lucini (Tre metri sopra il cielo, Oggi sposi, Nemiche per la pelle) e Ago Panini (uno dei principali registi di spot pubblicitari italiani) e ora disponibile su Amazon Prime Video, la serie indaga gli esordi di questa rivoluzione – la stessa Nesbitt l’ha definita la Nouvelle Vague italiana della moda – e i protagonisti che l’hanno resa possibile – Walter Albini, Krizia, i coniugi Missoni, Gianni Versace, Giorgio Armani, Valentino, Raffaella Curiel e Fiorucci – introducendoci in un mondo patinato fatto di riflettori, passerelle e sogni.
Per la prima volta un prodotto italiano ha deciso di guardare alla propria industria della moda con uno stile fashionista, lontano anni luce da altri prodotti come Commesse, per rimanere in Mediaset, o Luisa Spagnoli, Rai – sceneggiati melodrammatici pieni di intrighi amorosi e strazi del cuore che usano la moda come una cornice più che come un soggetto. A sottolineare il cambio di rotta è l’opening del primo episodio; senza neanche rendercene conto ci ritroviamo nei corridoi della redazione, immersi nel ricercatissimo stile dei Seventies: pubblicità del Campari, gonne a pieghe, foulard, pantaloni a zampa di elefante, stivali al ginocchio, mobili di design, dai colori ispirati alla natura – sottolineati da una fotografia retrò che vira leggermente verso il giallo per esaltare le tipiche sfumature di marrone – in tinta unita o con fantasie geometriche. La ricerca filologica è impressionante: gli abiti non sono stati realizzati ad hoc ma sono stati ricercati gli originali delle collezioni che vengono mostrate.
Volendo allargare lo sguardo verso altre fiction seriali internazionali incentrate sulla moda, Made in Italy si rivela essere una perla rara proprio per il suo modo di trattare l’argomento: per fare solo pochi celebri esempi, Sex and the City o Gossip Girl usano la moda come contesto altoborghese, in maniera non dissimile dalle già citate fiction italiane, nonostante lo stile decisamente più patinato. Non a caso Made in Italy cerca ispirazione più nel cinema che nella TV.
La caporedattrice Rita Pasini (Margherita Buy) è una Miranda Priestly tutta italiana, con tatto di acconciatura a cipolla un po’ slavata. Il riferimento a Il diavolo veste Prada non è affatto casuale: la serie strizza l’occhio al celebre film molte volte, a cominciare dal primo giorno di lavoro di Irene, alterego nostrano di Andy/Hathaway, la quale viene a sapere che la ragazza che stava prima al suo posto era stata letteralmente calciata fuori dalla rivista. Rita, che mantiene le nevrosi tipiche delle interpretazioni della Buy, condivide con Miranda la lingua tagliente e le alte aspettative nei confronti delle sue sottoposte; tuttavia lei non possiede il pragmatismo esasperato e il senso di priorità assoluta della carriera tipici statunitensi. Cerca di tenere in equilibrio il conflitto tra lavoro e vita privata ma la seconda finirà per avere la meglio. Suo figlio, antiborghese, è ricercato dalla polizia in quanto militante attivo all’interno del Movimento del ‘77. Rita è disperata perché vorrebbe aiutarlo ma è impotente perché lui la odia e fa perdere le sue tracce.
Si potrebbe obiettare che sarebbe stato sicuramente molto più in linea con il Made in Italy un rimando a Franca Sozzani, storica direttrice di Vogue Italia, alla quale sono dedicati tutti gli episodi della serie. La scelta de Il diavolo veste Prada, immagine decisamente più viva nell’immaginario collettivo dei non addetti ai lavori, è più efficace nel richiamare la frenesia del mondo dell’editoria di moda in vista di un pubblico non settorializzato.
Grazie al personaggio del grafico della rivista Filippo Cerasi (Maurizio Lastrico) si apre uno spazio di riflessione sulla condizione omosessuale di quel periodo, mostrandone i problemi e le difficoltà senza le solite patine buoniste che si ritrovano nei rarissimi altri esempi italiani, primo fra tutti Il bello delle donne – risalente ormai a vent’anni fa. L’unico modo per conoscersi, ritrovarsi, creare una comunità, era quello di frequentare alcuni pochi locali che ogni tanto si trasformavano in discoteche gay, fatte di alcol, droga, musica funk e retate della polizia.
Tra una sontuosa sfilata di Krizia e un servizio fotografico nell’esotico deserto marocchino commissionato dalla Curiel c’è lo spazio per raccontare il contesto storico della Milano di quegli anni, fatto di luci e ombre, di quartieri popolari e di sontuosi palazzi napoleonici del centro storico. La lotta di classe è sottratta alla vista ma non alla coscienza, grazie all’assenza del figlio di Rita e ai brevi focus sulla vita in fabbrica del padre di Irene e il drammatico rapporto tra sesso ed eroina vissuto attraverso l’amore di Filippo.
Peccato invece per la costruzione del personaggio della protagonista. Irene appare inconsistente: “Io assumo sempre lo stesso tipo di ragazza. Alla moda, magra ovviamente e che venera la rivista. Ma capita poi che si rivelino spesso deludenti” per usare le celeberrime parole di Miranda. Questa cristallizzazione la rende incapace di strapparci un sorriso o una lacrima – d’altronde anche lei sembra vivere i suoi drammi con invidiabile nonchalance. Essere cacciata di casa o decidere di rinunciare ad un matrimonio ormai organizzato non sembrano essere più drammatici di un’unghia spezzata. Con coerenza anche le interviste agli stilisti risultano scipite, poetiche forse ma incapaci di sottolineare la genialità degli stilisti.
Nonostante ciò, Made in Italy è una serie che restituisce lo zeitgeist di quegli anni, fatti di luci dei flash di ombre del malcontento sociale; e anche se il racconto degli stilisti è abbozzato, riesce a rendere l’idea di ciò che è stato quel fermento così innovativo nel campo della moda. Tralasciando quindi il margine di miglioramento fisiologico di ogni esperienza che fa da apripista, rimane un prodotto nostrano importante, che riesce a raccontare l’eccellenza italiana mantenendo in perfetto equilibrio il dramma con la leggerezza tipica dell’immaginario dell’universo moda.
Alessio Chiappi
Titolo | Made in Italy
Categoria | Serie TV
Episodi | 8
Stagioni | 1
Anno | 2019
insomma un copia incolla usando pure una sosia…. Ridicolo… una volta il cinema Usa copiava noi…ora il contrario…