Il colibrì di Sandro Veronesi | Un eroismo delicato contro la crudeltà...

Il colibrì di Sandro Veronesi | Un eroismo delicato contro la crudeltà della vita

Copertina_ilcolibrì

 

“Mi chiedo: ma il male – hai presente? Ha dei circuiti preferenziali, il male, o si accanisce a caso?”

 

Tra i nomi che componevano la sestina del Premio Strega, quello di Sandro Veronesi – insieme a quello di Carofiglio – era forse il più legato a un’idea di narrativa italiana in un certo senso istituzionale, novecentesca. La vittoria de Il colibrì è stata vista da alcuni come l’ennesima conferma di uno scrittore che non aveva bisogno di conferme.

La mancata opportunità di lanciare nell’empireo degli scrittori più affermati di questi anni una penna più fresca, giovane, come quella di Bazzi, Mencarelli e la Parrella. Scrittori che hanno scelto di raccontare tematiche sociali contemporanee in un mondo reale che chiede di essere raccontato, invece che mettere al centro la vita avversa di un semplice uomo medio, uno dei tanti della letteratura del secolo scorso (come fa Veronesi nel suo romanzo, anche se i temi di questi anni trovano un piccolo ma speciale spazio ne Il colibrì).

Ma vorrei parlare di questo libro edito da La Nave di Teseo (di cui forse già troppo si è scritto, e io sono decisamente in ritardo) immaginando di trovarmi a molti anni di distanza dalla sua uscita. Provando a dimenticarmi di premi, concorrenti, contingenze temporali, pandemie, tensioni sociali e politiche del momento. In modo da vederlo solo come il più recente e valido esempio di romanzo italiano borghese, l’ultimo di un filone che parte dal secondo dopoguerra, attraversa tutta la storia della Repubblica e prova a darsi una nuova veste nell’era post-post-(ancora uno? Ma sì)-post-moderna, sfoggiando una forma, un montaggio, una tecnica non nuove di zecca ma comunque degne di nota. Perché l’idea che Il colibrì diventerà un “classico” viene già durante la lettura, con tutto ciò che di positivo e negativo si porta dietro questo termine.

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La trama, nella sua grande semplicità e tradizionalità, è forse l’ultima cosa a impressionare. Nonostante la drammaticità che la contraddistingue (emoziona e commuove, certo), l’aspetto più evidente del romanzo è la tecnica usata da Veronesi per introdurre il lettore nella vita di Marco Carrera, il protagonista, l’uomo a cui è affidato il soprannome “colibrì”.

Ci sono infatti tre tipologie narrative ben precise, che si alternano di capitolo in capitolo (tutti caratterizzati da una certa brevità che facilita la lettura). L’ossatura del romanzo è affidata a un narratore onnisciente, che commenta il passato e il futuro della fabula: si rende visibile, si appella al lettore e lo strattona da una parte e dall’altra senza troppo lirismo, accompagnandolo lungo un intreccio complesso.

È una voce che ama il suo protagonista, gli vuole bene come un figlio e piange con lui, come nel capitolo “Shakul&Co”: un urlo in cui Veronesi ci regala un periodo lungo sette pagine, che ci lascia senza fiato come è senza fiato Marco Carrera in quel momento della sua vita. Ci sono poi i capitoli epistolari, che riportano una lettera o una mail, ma anche vere e proprie schermate di conversazioni su WhatsApp. Sì, proprio fotografate come se fossero uno screenshot. Nella terza categoria rientrano i capitoli puramente dialogici, come se il romanzo si fosse trasformato da una pagina all’altra in un testo teatrale.

Perché questo è quello che fa il Colibrì: cambia forma, spudoratamente. Veronesi non fa mutare la sua creatura solo per darle un tono avanguardistico, lo fa per dare la forma migliore a ciascun momento della vita di Marco Carrera. Ogni momento arriva esattamente quando dovrebbe arrivare secondo la volontà del “narratore-montatore”, non secondo l’ordine naturale delle cose. Siamo sbalzati dagli anni 60’ ai giorni nostri, dagli anni 90’ al 2030, seguendo spirali attorno ai grandi urti che hanno caratterizzato la vita di Marco Carrera, fino a che tutti i tasselli, pian piano, si incastrano perfettamente, e tutto sembra avere un minimo di senso.

Bolgheri
Bolgheri (Livorno) è un luogo centrale del romanzo

Tuttavia non si può parlare di un semplice romanzo sulla vita travagliata di un uomo borghese, impreziosito solo da un intreccio e una messa in scena particolari. Nella maggior parte dei casi noi lettori non siamo lì con Marco Carrera nei momenti cruciali della sua vicenda, come accade invece nei fratelli maggiori di questo romanzo, siamo lì con lui prima o dopo le bufere.

Vediamo una rappresentazione mutilata della sua vita, come se la troupe destinata a riprenderla avesse registrato solo alcuni momenti e se ne fosse persi altri. Ci adattiamo, come delle spie, accontentandoci di quello che Veronesi ci serve: ci occulta delle parti fondamentali, come se volesse rispettare il suo Marco Carrera, salvarlo dalla curiosità morbosa dei lettori.

Ogni tanto cogliamo sprazzi di una chiacchierata, ogni tanto apriamo la casella con le mail tra Marco e suo fratello Giacomo, altre volte ci becchiamo dettagli che sembrano completamente inutili, come la sinossi di alcuni libri Urania posseduti dal padre, o l’inventario degli oggetti e dei mobili della casa dei genitori defunti di Marco. Ma niente è superfluo in un’esistenza, e Veronesi sembra voler analizzare anche questo. Cos’è una vita? Cosa rimane di una vita? I suoi oggetti, i suoi figli, i suoi geni nei nipoti? Dov’è la sua impronta sul mondo?

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Leggendo il catalogo dei mobili e degli oggetti della vecchia casa dei Carrera in centro a Firenze, sembra di poter intravedere in filigrana la storia di una famiglia intera. Tutto, come in un racconto di Michele Mari, diventa feticcio, cimelio: gli impianti stereo rotti dai fratelli, le poltrone di design del padre, le foto della madre, gli Urania. I personaggi sono tutti lì, con le loro idiosincrasie e passioni, i loro fallimenti e le loro gioie.

Di Marco Carrera abbiamo la stessa conoscenza vaporosa: non ci viene mai descritto davvero, sappiamo che era piccolo e che poi è cresciuto grazie a una cura ormonale impostagli dal padre, conosciamo alcune sue passioni degli anni giovanili ma non il modo in cui ha passato le giornate da adulto, sappiamo che è oculista ma non perché lo è diventato. Non sappiamo nulla della sua quotidianità perché lo vediamo solo nei suoi tentativi di resistere alle avversità della vita, per cercare di tornare con grande fatica a una certa forma di normalità, di spostarsi fuori dall’epico, dal tragico, per mettersi comodo alla sua casa al mare di Bolgheri, in Toscana, a pensare all’amore della sua vita, Luisa Lattes, ma dalla quale la vita lo allontana di continuo. Proprio questo amore così candido e alto da sembrare “amor cortese”, amor de lonh mai consumato, è lo scheletro che sostiene la trama dall’inizio alla fine, e anche il motivo per cui ci affezioniamo da subito a Marco Carrera.

 

“Io credo che tu sia la parte migliore della mia vita, quella senza bugie, senza inganni o incazzature, la parte che si può sognare, anche la notte, perché io continuo a sognarti.”

 

Il libro inizia con l’analista della moglie di Carrera che bussa alla porta del suo studio oculistico per dirgli che si trova in pericolo, siccome la moglie Marina, sua cliente, ha scoperto la pudica corrispondenza con la donna che ama fin da quando era un adolescente: Luisa Lattes. Luisa Lattes, che più non può averla e più la ama, Luisa Lattes che tanto più è lontana e negata e tanto più diventa emblema della felicità stessa. Un amore mai vissuto, in opposizione al disamore sempre vissuto, troppo vissuto, dei genitori di Marco. Dall’incipit scaturisce il divorzio con Marina, ma è solo un dramma minore rispetto agli altri che lo aspettano, o che ha già affrontato. Il romanzo ruota attorno a questi momenti cruciali, tre o quattro (con due significativamente più importanti, che riempiono le pagine centrali), in cui la vita del protagonista subisce una brusca sterzata.




Nonostante sia un gioco facile quello di emozionare il lettore con eventi infausti che sanno di già visto (anche se Veronesi lo fa bene, senza pietismi), il valore del libro sta nella capacità di analizzare quegli interstizi, quello sparso che abita gli snodi cruciali di una vita. Non ci affezioniamo a Marco Carrera perché ci fa pena, né perché si ribella eroicamente a quello che gli accade. È sfortunato, non debole, come dice lui in un passo del libro.

Ci affezioniamo perché si adegua, resiste senza far schiamazzi, tende alla felicità senza rincorrerla, e se la raggiunge si accontenta di sfiorarla soltanto. È un Gatsby che si limita a guardare la luce verde sull’altra riva senza provare a prenderla. Da qui la frase centrale del libro, in quarta di copertina, che gli scrive Luisa Lattes in una lettera: “tu sei colibrì perché come il colibrì metti tutta la tua energia nel restare fermo”.

Marco è l’archetipo del borghese statico, che subisce senza piegarsi o spostarsi, ed è in opposizione a uno dei personaggi centrali del romanzo, motore delle vicende insieme a Luisa: la sorella Irene Carrera, centrifuga. Anche lei è una figura archetipica del secolo scorso, tesa alla ribellione totale nei confronti del mondo e della vita stessa.

SandroVeronesi
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Ma anche in drammi che sembrano non avere senso, il protagonista riesce a trovare una sorta di linea rossa che lo fa stare a galla. Quando la vita sembra dare a Marco Carrera il colpo di grazia, il colibrì arriva alla consapevolezza che qualcosa può ancora fare, capisce che il senso della sua vita può essere quello di crescere sua nipote Miraijin.

Lei è l’homo novus, il nome significa ’“uomo del futuro” in giapponese, è una sorta di attivista dai tratti messianici, emblema di una generazione nuova, nata in questi anni, lontana dall’ imperfezione delle generazioni nate nel secolo scorso, condannate da una storia che le ha segnate fin troppo. Miraijin è destinata a rendere il mondo un posto migliore, affrontandolo come suo nonno non ha potuto.

In un certo senso è come se Marco Carrera si accontentasse di diventare un personaggio secondario per una nuova storia che qui non è raccontata, di diventare quello che sono Letizia e Probo, i genitori dei tre fratelli Carrera, in questo romanzo (per chi scrive i personaggi più riusciti, unici nel loro modo di amarsi, di odiarsi, di affrontare la morte).

 

“Smisero di colpo di litigare, quella sera, e rimasero insieme a non sopportarsi, a ferirsi e a litigare sottovoce per il resto dei loro giorni.”

 

Tutto il romanzo, in effetti, è costellato di possibili protagonisti di storie che Veronesi deliberatamente ci fa solo annusare. Ogni tanto queste sagome fanno capolino in superficie e il narratore ce le indica, ci apre una finestra senza spalancarla. È iconico il fatto che verso la fine, in un momento cruciale, la voce si soffermi a descrivere in poche righe la vita di un infermiere che compare solo in quel momento, per poi concludere il paragrafo con “è una storia pazzesca […] ma questa non è la sua storia”, perché le vite sono tante, e le sofferenze sono infinite, e la vita di uno non è mai solo la vita di uno.




E sono molte le figure che vorticano attorno a Marco Carrera, seguendo orbite palesi e vicine ma anche lontane, tanto lontane da essere invisibili: il fratello Giacomo che non risponde ai tentativi disperati di Marco di comunicare per dei motivi che sfuggono al lettore fino alla fine, il vecchio compagno di sci club “L’innominabile”, il migliore amico del padre Probo, morto in un modo inaccettabile, Luisa Lattes. Figure che sembrano poter celare la chiave dell’intera vicenda tanto “parlano” al lettore, tanto sono portatrici di significato, ma che alla fine sono solo uno dei tanti modi che ha il mondo di manifestarsi in tutta la sua multiforme casualità, e noi lì, spettatori disperati che provano a trarne un senso.

È grazie a questo meccanismo, grazie a questo planare sulle vicende e sui personaggi, che Il colibrì diventa un romanzo destinato a essere un caposaldo della nostra letteratura recente. Perché la trama emozionante da voltapagina, già vista, così classica e otto-novecentesca nella sua essenza, è abitata da un protagonista dall’eroismo delicato, quasi invisibile, ma anche dalle ombre di personaggi indimenticabili e storie che cogliamo per un breve attimo, che meriterebbero romanzi interi (gli amici modellisti del padre Probo che ricevono in eredità i plastici dei suoi trenini, la vicenda pirandelliana dello iettatore di professione Duccio Chilleri, il grottesco club di ludopatici di Dami Tamburini). Vicende fortuite, rubate, secondarie e per le quali non troviamo una logica precisa, ma che rappresentano in modo impeccabile quello slalomeggiare goffamente in mezzo alle tragedie inspiegabili che è la vita.

 

Titolo | Il Colibrì
Autore | Sandro Veronesi
Casa editrice | La nave di Teseo
Anno | 2019

 

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