Il cinema e l’ossessione per l’immagine
Viviamo in un mondo continuamente bombardato da immagini. Dobbiamo fotografare ciò che stiamo facendo, il cibo, i concerti. Sentiamo la necessità di immortalare, finanche gli atti negativi o criminali, per il gusto fondamentale dell’”io c’ero”. YouTube ha formalizzato questa ideologia dell’immagine, creando un immenso contenitore per tutto e tutti, senza discriminazione alcuna. Senza gerarchizzazione. Dove l’immagine stessa diventa fulcro e centro, specchio quasi, per chi la guarda, ossessivamente. Sarà capitato a tutti di entrare su YouTube e non uscirne per ore, saltellando da un video ad un altro.
Il cinema, fin dai suoi primordi, ci insegna come il rapporto fra l’immagine e la sua ossessione sia stretto, come il cinema stesso sia in sé voyeurismo, sia da parte di chi lo fa, che da parte di chi lo subisce – gli spettatori. Perché non solo girare, ma anche guardare un film, permette di avere la visione di un’altra vita, senza il coinvolgimento di viverla, o le sue conseguenze. Come spiare dalla finestra i vicini di casa. Ed esiste un accenno più che velato di morbosità in questo. Non a caso, dopo le meraviglie dei fratelli Lumiere, fra le prime testimonianze di “immagini in movimento” troviamo proprio graziose signore parzialmente vestite che ballano.
Iniziando dagli albori, L’uomo con la macchina da presa, film del 1929 del regista sovietico Dziga Vertov, è forse il primo a mettere così in chiaro il rapporto dualistico ed ossessivo fra immagine e sguardo. Vertov segue per un giorno intero le riprese di un operatore di camera, senza attenersi ad una storia o ad un copione. Oltre ad essere un capolavoro di montaggio, il film di Vertov pone l’accento su come l’obiettivo della macchina da presa sia quasi un buco della serratura, che permette (e dà anche il diritto) di osservare qualunque cosa: dalla cucina di una signora, attraverso una finestra, all’incidente in macchina capitato per strada. L’obiettivo morbosamente si sovrappone all’occhio: chi guarda per sua natura è un guardone. La camera è usata proprio sulla base di questa idea, morbosa propaggine dell’occhio umano, che può fare ciò che all’occhio umano spesso è proibito.
L’operatore, poi, è sia agente che oggetto dello sguardo. Il film alterna scene in “soggettiva” dove la personificazione dell’obbiettivo della cinepresa con l’uomo che guarda è completa, a scene in cui l’operatore di camera è ripreso in terza persona. Un continuo gioco di specchi in cui chi guarda è a sua volta guardato, dall’Occhio Esterno. Lo spettatore, appunto. Alla fine della filiera degli sguardi ci siamo noi, gli spettatori e fruitori dello spettacolo. Tutti guardoni. Tutti voyeur. Tutti dipendenti dalla pornografia dell’immagine, cioè dall’immagine in quanto tale, quell’immagine che spersonalizza di significato il suo contenuto per divenire ripetizione infinita di se stessa.
Vero capolavoro del meta-cinema è stato, successivamente, Peeping Tom (titolo originale ben più evocativo dell’italiano L’Occhio che Uccide: Peeping Tom è il guardone che rimase cieco per aver osato spiare dal buco di una serratura Lady Godiva cavalcare nuda, NdS), dell’inglese Micheal Powell. L’ossessione della macchina da presa che tutto osserva è portata fino al suo estremo criminoso, inserendo nel discorso teorico un concetto che in Vertov era solo accennato ed ancora sub-liminale. Ancor più di una qualunque immagine, “guardare” violenza è come una droga, un germe che contamina tutti e ti entra sotto pelle. Come una droga, spersonalizza ed è spersonalizzata: la violenza diventa pornografica, nel senso che compartecipa di un’estetica svuotante, ripetitiva e codificata, capace di ridurre lo spettatore alla propria eccitazione. Come pornografia, l’immagine violenta fissa un corpo smembrato, in cui spesso il volto (cioè l’altro rispetto a noi) manca e le storie, le ragioni, sono assenti.
Il protagonista del film di Powell oscilla fra le pulsioni omicide e quelle sessuali, riprendendo entrambe nella medesima maniera. Il discorso di Powell, poi, si allarga anche alla massa del popolo (benpensante inglese della metà degli anni ’50), che nasconde il proprio indicibile voyeurismo dentro un pacchetto di “Educational Book”, ma che altro non chiede che corpi – siano essi sessualmente attraenti o violentemente mutilati. E l’industria cinematografica non è da meno, svuotata di ogni profondità ed imprigionata in sciocche commediole in balia di attricette da poco. Sembra un discorso familiare, non è vero? Vediamo questa violenza nelle immagini di tutti i giorni; cerchiamo questa violenza tutti i giorni, anche noi succubi di una droga che viene da lontano, anche noi complici nella realizzazione di prodotti in serie destinati al consumo di massa, al junk movie, che ti rende solo capace di chiederne altro.
Crash di Cronenberg/Ballard è un esempio magnifico ed estremo di questa droga della violenza, ma anche il cinema italiano ha avuto tanto da dire a riguardo (senza necessariamente tirare in ballo i buchi della serratura di Lino Banfi e Alvaro Vitali. Anche se…). Cannibal Holocaust del regista Ruggero Deodato, oltre ad essere l’antesignano del found footage, è forse il film più iconico, capace di sovrapporre l’ossessione per l’immagine, quella per la violenza e la sensualità che unisce le due. Solo che è un bagno di sangue e ci recita Luca Barbareschi e quindi è poco adatto alle tesi di laurea, a differenza di Peeping Tom! La troupe cinematografica inviata nella foresta per fare un reportage sui cannibali crea ad arte l’orrore e la violenza solo per poterla riprendere (il titolo, in inglese, permette l’ambiguità: i cannibali sono artefici o vittime dell’olocausto?). Tutto deve essere ripreso, dallo sventramento di una tartaruga, alle effusioni di due membri della troupe. Il voyeurismo è portato alla sue estreme conseguenze: crea la realtà che vuole ossessivamente vedere/filmare e gode lascivamente di questa, ripetendola e perpetrandola all’infinito.
L’immagine rischia di diventare una vuota droga, ancora più ferocemente se si tratta di un’immagine violenta. Questo il cinema lo sa, se ne serve da sempre. Ma lo sappiamo anche noi?
[…] se sovrapposta alla nuova tecnologia di realtà virtuale. Non solo per il rischio di iper-esprimere un gusto voyeristico tipico del cinema (che il corto, comunque, trasmette). Da un lato permette di sviluppare molti più particolari e […]