I racconti di Amparo Dávila sono un bel posto dove andare a...

I racconti di Amparo Dávila sono un bel posto dove andare a soffrire

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“Non c’è stato tra noi un attimo di infelicità, solo una minima divergenza su una cosa che non esiste.”

(Mary Butts, Brightness falls)

È il 10 ottobre 2004 (vale già da tempo la regola che non so cosa ho mangiato stamattina a colazione ma ricordo sempre le date importanti) e il primo Poe che leggo rigorosamente a notte fonda invece di dormire, cara vecchia abitudine che fa molto cliché ma non per questo è meno sincera, parla di una sepoltura prematura che da quello che ricordo, a prima lettura, mi sembra subito rievocare poeticamente una paralisi del sonno scritta particolarmente bene e che mi coinvolge più del necessario, nonostante abbia la netta sensazione che stia per finire piuttosto male. Anzi, forse mi incollo alle pagine proprio per questo motivo: il panico cosciente di quei pochi attimi di dormiveglia in cui il corpo intorpidito e formicolante non è in grado di eseguire ciò che gli dice il cervello, questa volta, non sembra avere un lieto fine ma sembra invece generare un terrificante equivoco senza possibilità di ritorno e che ha tutte le carte in regola per diventare il tuo nuovo peggiore incubo e cominciare a perseguitarti.

Capisco subito che la cosa per me non finisce lì quando un ingombrante e nuovo disagio e un senso di malessere post lettura si protraggono anche quando le prime luci dell’alba cominciano a filtrare tra i buchi delle tapparelle.

È così che alle tangibili angosce della vita in generale, dal quel momento, si aggiungono le costanti letture di fantasiose ma non meno tangibili angosce inventate che per tentare di rendere visibile ogni sfumatura della follia si manifestano metaforicamente nei più diversi e drammaticamente familiari modi: inquietanti gatti con più occhi del necessario, case monumentali dal passato ingombrante che scricchiolano a ogni passo e a un certo punto crollano come imperi al collasso, alberi genealogici tenuti assieme da macabre disgrazie, mogli tanto infelici quanto pallide e tanto belle quanto prematuramente morte, la vaga paranoica sensazione di avere sempre qualcuno alle spalle che diventa improvvisamente invisibile quando ti giri a guardare.

È inevitabile che questo accumulo di inspiegabile mistero e terrore aggiunto ha avuto su di te l’effetto di un riuscitissimo incantesimo che ti fa gettare nel limbo delle cose trascurate e poi dimenticate tutte le incombenze reali e, quelle sì, mortalmente noiose della tua adolescenza.

Direi che siamo una specie vivente piuttosto fortunata anche solo per il fatto che al nostro terrore non c’è mai fine, così come ai fantasiosi modi in cui riusciamo a dargli forma e raccontarcelo per cercare di combattere con lui ad armi pari e a rendercelo più comprensibile e tollerabile, ed ecco che dopo Edgar Allan Poe, Shirley Jackson, Franz Kafka e Leonora Carrington, si aggiunge all’olimpo dell’inquietudine e delle notti interminabili la maga messicana Amparo Dávila, decisa a popolare la nostra insonnia con la sua magnetica fantasia e a incuterci una paura paralizzante tanto familiare quanto difficilmente descrivibile. Inutile dire che certe cose, certi personalissimi brividi, non si possono spiegare, li devi vedere o, se sei più fortunato, leggere coi tuoi occhi.

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Grazie a Safarà Editore abbiamo conosciuto qualche tempo fa un’altra perla rara della letteratura, Mary Butts, che con la meravigliosa e ambigua raccolta A Bloomsbury e altri racconti ci ha raccontato un mondo popolato di disturbanti pratiche magiche (la Butts ha una bio che è tutta un programma e, tra le altre cose, ha per un periodo frequentato l’Abbazia di Thélema del famoso occultista A. Crowley fino al momento in cui ha verosimilmente pensato che il palinsesto delle serate fosse un po’ too much anche per lei), mogli annoiate che si donano alla stregoneria ed ecco che tornano improvvisamente a essere felici, le strade di una Parigi più che mai mistica con i suoi, direi, eccentrici personaggi in cerca di risposte, una terrificante leggenda su una scatola piena di guanti nascosta in soffitta e lo spirito di un’anima inquieta che inizia come un gioco e invece non lo è… La pubblicazione de L’ospite e altri racconti di Amparo Dávila, scomparsa quest’anno, sembra procedere su un consistente progetto di riscoperta di importanti voci femminili del perturbante, più che mai meritevoli di essere lette e amate e che con i loro lapidari racconti ci spalancano porte su spaventosi e magnetici scenari che rimarranno a lungo nella nostra memoria e nei nostri incubi a occhi aperti.

cover Dàvila

L’ospite e altri racconti è una raccolta ricca di personaggi condannati a subire il lato meno romantico della pazzia. Nella maggior parte dei casi si tratta di figure femminili terribilmente disperate, dal viso smunto e pallido e dalle occhiaie pronunciate, che hanno passato l’ennesima brutta nottata e che si apprestano ad affrontare un altro risveglio in un inappagante ambiente domestico angosciante e isolato, dove l’incomunicabilità ha la meglio e il malessere, la frustrazione e la rielaborazione dei traumi passati si manifestano sotto diverse forme incomprensibili e invisibili a tutti se non a loro stesse e alla loro spirale di delirio ricca di immaginazione vivace e malatissima. Luoghi protagonisti dei racconti sono le case dei personaggi, poiché il dolore per svelarsi nelle sue molteplici forme ha bisogno di un ambiente familiare e solitario e proprio qui ogni ombra, dove più si dovrebbe essere al sicuro da ogni terrore, si trasforma in una minaccia da temere e disposta a ferire approfittando di ogni minima distrazione delle sue vittime condannate in partenza.

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Incubi che assomigliano a premonizioni destinate ad avverarsi in tutta la loro tragicità, la costante sensazione di essere insistentemente spiati da qualcuno che ci osserva silenziosamente dalla porta della nostra camera proprio nel momento in cui si è più indifesi e abbandonati, risucchiando, con la sua sola presenza, l’energia assieme al colorito dei volti che hanno ormai perso qualsiasi parvenza di vitalità. L’impossibilità di comunicare e la conseguente incapacità a rendere visibile agli altri conviventi il proprio dolore e la forma che assume – che sia quella di un’insistente stalker dalle comuni sembianze di rospo a una più letteraria e vampiresca presenza minacciosa – e, soprattutto, il percorrere delle scale che conducono in un’infernale cantina/prigione dove l’escamotage di un’ipotetica e affascinante, per quanto spaventosa, licantropia – i lamenti come ululati e la luna che osserva silenziosa – non può che rivelare a un occhio ragionevole una più reale ma non meno incomprensibile malattia mentale da nascondere e mai nominare. I personaggi percorrono frenetiche salite e discese che, scalino dopo scalino, conducono in un percorso che porta ai vertici e alle profondità di un’indefinibile paura e, inevitabilmente, a un conclamato esaurimento nervoso che svuota da tutte le energie che un corpo possa contenere lasciandolo definitivamente vuoto e stremato.




Il delirio ossessivo prende visibilmente forma e, come nel racconto che dà il titolo alla raccolta, per Amparo Dávila L’ospite è talvolta il mostro che sarà punito a causa dell’angoscia, dello spavento e del fastidio che procura agli abitanti della casa la cui quiete sarà difficile ristabilire ma, soprattutto, l’ospite è sempre il dolore dei protagonisti che, infelice della sua congenita forma nebulosa e inconsistente, decide di esprimersi nel quotidiano attraverso delle forme dai contorni fin troppo reali. La suspence interrotta di questi racconti senza fine fa sperare che, nonostante le circostanze sembrerebbero rivelare il contrario, forse non è però quel mostro a più teste che chiamiamo dolore, nella maggior parte dei casi, ad avere infine la meglio.

“Ieri cantava, la stessa canzone tutto il giorno e tutta la notte, però cantava.”

Titolo | L’ospite e altri racconti

Autore | Amparo Dávila

Editore | Safarà Editore

Anno | 2020

Pagine | 144

 

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