I migliori film del 2024 (secondo SALT, cioè noi)
Quest’anno Internazionale ha fatto addirittura un numero dedicato al meglio dell’anno passato. Tze. Noi lo facciamo da anni. (Vedi alla voce “emoticon con smalto”).
Avete già letto la listona dei nostri libri del cuore 2024 (l’avete letta vero? VERO? <3) e quindi non poteva mancare anche l’elenco dei migliori film del 2024, a nostro insindacabile giudizio.
Si parla di film usciti in Italia nel 2024, anche se alcuni sono effettivamente del 2023 (e magari li abbiamo già visti agli Oscar). Mancano, purtroppo, alcuni pezzi da novanta che non sono ancora arrivati da noi (Nosferatu, Queer) che verosimilmente (forse chissà) leggeremo nella lista 2025.
Ma intanto.
Una menzione su come l’annata sia stata prolifica in fatto di horror: due addirittura nella lista, speriamo che anche ai premi sia così perché non ne possiamo più di benpensanti che dividono in cinema in alto e basso. Realmente esistono solo due categorie: film belli e film brutti. Per un approfondimento sugli horror dell’anno, abbiamo fatto una newsletter apposita: la trovate qui.
Infine, prima della lista, vi portiamo dietro le quinte della redazione, per raccontarvi come due redattori si sono accapigliati su Parthenope, per decidere se inserirla o meno. Uno (il sommo Ale Pigoni) non ha apprezzato, trovandolo sostanzialmente un The Substance estetizzante; l’altro (il serpentesco Michele Chiacchio) ha votato per inserirlo nella lista. Siamo democratici, quindi Parthenope la troverete più in basso. Ovviamente nuda, lasciva, con una sigaretta in bocca, un’aura pazzesca, e senza grandi pensieri in testa.
PS: siamo contenti di inserire quest’anno un numero davvero straordinario di registe nella nostra lista. Le cose stanno cambiando, per il meglio.
Vermiglio, di Maura Delpero
Un mondo antico, ormai perduto se non nelle memorie degli anziani, che la regista racconta con attenzione e commovente naturalezza, senza patetismi né indulgenza. Un famiglia e le sue tribolazioni, a fine seconda guerra mondiale, in montagna; tutto narrato e parlato in dialetto, visto negli occhi e dagli occhi delle giovani protagoniste: sorelle, donne che non sanno ancora di esserlo e troppo tardi si rendono conto di ciò che significa. Un padre-padrone, ma anche maestro, che dà e toglie a seconda delle sue opinioni.
Maura Delpero riesce a riportare in vita un mondo perduto, con occhio critico e al contempo mai indulgente, lontano dalla poesia insistita sul mondo passato (penso a The Metamorphosis of Birds, per esempio), ma anche lontano dal patetismo del neorealismo italiano. Un nuovo realismo quasi magico.
The Substance, Coralie Fargeat
Sicuramente il film più sorprendente dell’anno. Coralie Fargeat prende mille suggestioni e le rigurgita in un film formalmente perfetto, quanto interessante come narrazione e messaggio. Il tema non è nuovo, anzi: sembra quasi voler (dover?) tornare a tematiche che consideravamo ormai superate, quali la vuota bellezza, ma forse superate non sono. Un star in declino che fa di tutto per poter avere un’altra possibilità, perché apparire è l’unica cosa che conta. Ed ecco dunque che la strepitosa Demi Moore si crea una copia più giovane e bella, l’altrettanto strepitosa Margaret Qualley. Con tutto ciò che ne consegue, fino al finale tragicomico e grottesco. Coralie Fargeat cita apertamente: Kubrick (un po’ ovunque), Hitchcock, ma punta dritta per la su strada: creare un body horror archetipico, che a molti non piacerà (e non è piaciuto, infatti). Il commento medio sui social è: bello, ma l’ultima parte anche un po’ meno. Ecco. In realtà è strepitoso proprio perché nell’ultima parte decide di premere sull’acceleratore e schiantarsi in un mare di carne e organi e occhi e orecchie. Per farlo, riprende il body horror vero, quello di Society di Brian Yuzna (piccola polemica: a dimostrare quanto il cinefilo medio sia spocchioso, i video che si trovano in giro su “tutte le citazioni di The Substance” non riportano mai Yuzna).
Un plauso al sonoro, davvero protagonista del film, capace di rendere anche un pastiglia effervescente qualcosa di estremamente fastidioso, quasi doloroso.
All we Imagine as light, di Payal Kapadiya
La giovane refista indiana, dopo anni di gavetta nel documentario, ci porta nel cuore di Mumbai e racconta con straordinaria leggerezza la storia di alcune donne, sole, che lavorano insieme. L’influenza del documentario ancora si sente, con lunghe scene nella città con in sottofondo dialoghi di persone qualunque, ma questo rende ancora più piacevole la visione. Nel racconto, vengono sfiorati molti temi importanti per la regista e per l’India: la condizione della donna, le differenze di genere, il lavoro e lo sfruttamento della città, le multinazionali che imperversano. Tutto viene però trattato con leggerezza, attraverso lo sguardo delle protagoniste, che se la cavano in un mondo troppo grande, insieme, aiutandosi.
Quando poi la scena si porta sulla costa, dove una delle protagoniste si trasferisce perché sfrattata, anche il resporo del racconto sembra allargarsi come l’orizzonte, tanto da riconciliare in una scena dal sapore quasi magico, passato e presente.
La stanza accanto, di Pedro Almodovar
Le donne raccontate da Almodovar, di nuovo, come solo lui sa fare. Questa volta (per la prima volta) il film si sposta negli Stati Uniti, per raccontare la storia di due amiche, Tilda Swinton e Julianne Moore. La prima sta morendo per un tumore e chiede alla seconda di starle accanto, fino alla fine. A una prima parte di fitti dialoghi, a tratti quasi forzosi, sulla vita e sulla morte, segue una seconda parte quasi rarefatta, dove le parole lasciano piano piano lo spazio ai silenzi ed alle immagini. Raramente abbiamo visto una riconciliazione così profonda con la vita, ancor prima che con la morte, come accade alla fine del film. Come sempre, la messa in scena di Almodovar è ricca. Del consueto barocco rimangono i colori, che raccontano emozioni e storie; rimangono gli arredamenti e gli spazi, così importanti nel suo cinema. Due attrici in stato di grazie completano il quadro. Sembra davvero di vedere parlare due amiche, in tutta naturalezza. Due donne, in grado di toccare con gentilezza (ed anche ironia) tutta una serie di temi fondamentali.
I saw the TV glow, di Jane Schoenbrun
Di questo film abbiamo abbondantemente parlato, perché si tratta di uno dei film che più ci hanno colpito quest’anno. È un film strano, stratificato, a tratti criptico. Parla di noi, di quel sentirsi diversi, di quel trovare un conforto nella serie tv (o nei prodotti artistici, in generale); parla anche dell’accettazione di sé, della propria sessualità e del proprio posto nel mondo. È difficile fare la scelta giusta. E in questo, la regista Jane Schoenbrun, trans e non-binary, non si schiera: non esistono scelte corrette; le scelte comportano sempre una rinuncia gravosa. Il tutto letto attraverso l’amicizia di due ragazzi che adorano una serie tv, con personaggi presi direttamente dagli Smashing Pumpkins (che rimangono sempre in sottofondo) e rimandi a David Lynch. Una messa in scena sorprendente, lontana dai rischi della nostalgia di un’epoca passata (e mai dorata), capace di parlare a tutti quelli che si sono sentiti diversi almeno una volta nella loro vita. Cioè a tutti.
Past Lives, di Celine Song (2023 ma da noi arrivato nel 2024)
Past Lives è il fulminante esordio di Celine Song, un menage a trois che non si consuma mai, pur continuando a bruciare negli anni. I momenti della storia sono come piccoli estratti di vita, che coinvolgono i due protagonisti, scena sé stanti, diorami di sentimenti. Ma è forse la terza parte, quando Hae Sung va a trovare Nora a New York che rappresenta la parte meglio riuscita, dove gli sguardi e i movimenti fanno più delle parole – magistrale in questo senso la scena del loro primo incontro a New York. Un film di spazi, reali e immaginati; incolmabili, ma che riempiono la scena. Con il finale amaro che ha commosso tipo tutti. Unico vero metro di paragone è In the mood for love, per atmosfera e tematiche, pur con un aspetto musicale meno riuscito (nonostante un Suzanne di Cohen buttata lì).
Povere creature!, di Yorgos Lanthimos (2023 ma da noi arrivato nel 2024)
Poor Things è una sinfonia di immagini e colori (anche quando usa il bianco e nero), cucita addosso a una straordinaria Emma Stone. La regia di Lanthimos è sempre più estraniante, l’uso del grandangolo e del fisheye in questo film sono a tratti quasi eccessivi, ma il risultato è eccellente. È una parabola femminista? È vista eccessivamente dall’occhio maschile e sessualizzata? Il sesso è eccessivamente preminente? Non lo so: Lanthimos potrebbe lasciare in sottofondo una nota stonata per non farci sentire del tutto a nostro agio, anche in quello che solo apparentemente è un finale positivo (ma ricalca alcune delle sovrastrutture di potere da cui Bella scappa, semplicemente ribaltandole). Senza dubbio è la parabola di crescita di un cervello dentro un corpo e di come queste due componenti imparino ad integrarsi e a diventare una persona unica (non me ne voglia Cartesio).
Il meno Lanthimos dei suoi film, il più apprezabile; a noi è piaciuto molto anche Kinds of Kindness (sempre del 2024), ma sicuramente è meno accessibile (e per questo molto più in linea con la filmografia del regista greco)
La zona di interesse, di Jonathan Glazer (2023 ma da noi arrivato nel 2024)
Un film difficile, secco, con una regia superba che riesce nell’incredibile impresa di mantenere quella giusta distanza che serve a mostrare senza trasmettere empatia. In questo Glazer è magistrale: non c’è mai un primo piano, i protagonisti vengono tutti inquadrati da una distanza media – quella di un documentario, di una cronaca. BIsogna mostrare; bisogna sapere. Senza però che nasca empatia verso le singole figure. E Glazer ci riesce, confezionando un film che è l’opposto dell’empatia (e che a molti risulterà, per questo, estremamente ostico). Ugualmente, il sonoro fa un lavoro eccellente a trasmettere l’orrore e la vicinanza, senza mostrarlo mai apertamente. Bello, necessario.
Parthenope, di Paolo Sorrentino
Chi è Parthenope: un mistero o una truffa? Che detto in italiano (e non in Sorrentiniano) vuol dire “ci è o ci fa”? Questa domanda – tra le mille frasi a effetto di cui il film è costellato – è valida sì per la protagonista del film, ma anche per tutto il cinema di Sorrentino e, soprattutto, per l’altra protagonista della pellicola, con cui Parthenope condivide il nome: Napoli. Parthenope è Napoli come Jep Gambardella era Roma; ma se Roma è lascivia e noia, Napoli è rimpianto e indulgenza, e non si può parlare di bellezza senza parlare di grottesco e mostruoso. Il film, grazie anche alla narrazione episodica che porta la ragazza-città a interfacciarsi ora con uno, ora con un altro comprimario, rappresenta un viaggio nello spirito di questa città e una sincera dichiarazione d’amore da parte del regista partenopeo, seppur comunque non facendolo mai distaccare da quella cifra stilistica che tanto lo rende un regista unico nel saper rappresentare alti e bassi dell’umanità quanto un furbone che farà apporre la dicitura “cit. Sorrentino” su miliardi di tagline di Instagram da qui all’eternità. E comunque, “il porridge sa di mogano”.
Dahomey, di Mati Diop
Il documentario della regista che ha vinto l’Orso d’oro alla Berlinale parla di colonialismo. Per farlo, racconta la restituzione di 26 opere d’arte (su oltre 7000, come ribadito più volte) da parte del governo francese al Benin, da cui le aveva prese quando invase questa terra, allora chiamata regno di Dahomey. Le opere stesse parlano, intervallate dagli interventi di giovani universitari. Vengono affrontati vari aspetti del colonialismo: la lingua, la cultura ancora oggi imperante. E la possibilità che le opere di un Paese vengano a questo restituite. Ma quel paese, sarà in grado di trattarle adeguatamente (ecco, anche questo è un pensiero colonialista), oppure stanno meglio chiuse -chessò- la British Museum (per fare un esempio su cui ci sono alcune migliaia di meme – ma non diteglielo, che poi ci blocca l’account). Ma anche restituire le opere, non è forse una forma di colonialismo, di bontà dell’uomo bianco verso il povero paese sottosviluppato? Un documentario per riflettere anche su come noi pensiamo rispetto al colonialismo e su come le questioni siano molto più complesse che all’apparenza, anche nella voce di chi le vive tutti i giorni.
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