I love Radio Rock | manifesto della rivoluzione a colpi di mojito
Regia: Richard Curtis | Anno: 2009 | Durata: 135 minuti
La rivoluzione a base di Lambrusco è finita! Non me lo sto inventando io, i sondaggi e i risultati elettorali parlano chiaro: alle feste dell’Unità, il Lambrusco oramai lo bevono in tre. D’altronde se in Emilia vince Casini, qualcosa vorrà pure dire. Chi porterà avanti la prossima rivoluzione avrá bisogno di una nuova bevanda con cui identificarsi e da innalzare a simbolo stesso del movimento. Secondo me può essere il mojito.
Il mojito è una bevanda strana: è un cocktail – che è sinonimo di “fighetto”, un aggettivo assai poco rivoluzionario e per niente proletario – eppure discende direttamente dal grog (rum, acqua, lime), e ricerche recenti attribuiscono la sua paternità nientedimeno che a Sir Francis Drake. Il mojito vive nei cocktail-bar della vostra città ma non con la pretestuosità del Long Island, né con l’ipocrisia del Cuba Libre, vi è stato trapiantato dalle sentine delle navi e ha imparato a prosperarvi, senza corrompersi né annacquarsi (quando è fatto bene…seriamente, perché è così difficile trovarne uno buono?!). Insomma, il mojito collega due mondi: è un pirata cha frequenta la gente bene pur avendo mantenuto il suo spirito e le sue idee da bandito.
E i pirati ci servono, ne abbiamo parlato. Perché può succedere che nei rari casi in cui per perseguire la giusta rotta sia necessaria un’azione di pirateria, la pirateria stessa diventi la giusta rotta (una stellina d’oro se avete colto la citazione). Immaginate per esempio che il Potente abbia dichiarato fuori legge la vostra musica preferita, o il vostro taglio di capelli; sarebbe giusto intraprendere la carriera del pirata in risposta?
Spoiler: Sì.
Richard Curtis è il re delle commedie che fanno ridere Sua Maestà: sue sceneggiature sono Bridget Jones, Notting Hill, Quattro matrimoni e un funerale, e naturalmente Mr. Bean. È inoltre regista di quell’opera allucinante e amata da chiunque – me compreso – per un lunga serie di motivi tutti sbagliatissimi che è Love Actually: uno dei film più razzisti e sessisti mai visti sullo schermo eppure araldo del romanticismo glicemico da festività.
Un giorno il vecchio Richard prende una gran botta in testa ed esclama “ehi, pure io voglio fare la rivoluzione!” e se ne va tutto contento a scrivere la sceneggiatura di I Love Radio Rock.
Regno Unito, 1966. Il Governo di Sua Maestà limita la trasmissione di musica pop/rock a mezz’ora al giorno. In risposta, nascono le navi-radio pirata che trasmettono la musica bandita – 24 ore al giorno, 7 giorni la settimana – nei timpani degli albionici, i quali ringraziano entusiasti (per quanto entusiasta possa essere un inglese). Il Governo, qui interpretato da Kenneth Branagh, forza la mano e da lì sarà un escalation continua, folle e culminante con un finale che urla “proprio come allora” da tutte le parti.
Rappresentati da esponenti dell’artiglieria pesante del cinema inglese (Kenneth Branagh appunto, ma anche Emma Thompson e quel gran figo di Bill Nighy che, se lo chiedete a me, si mangia da solo tutto il film – anche grazie a un guardaroba troppo spettacolare per essere vero) e da ottime nuove reclute internazionali (Philip Seymour Hoffman, Nick Frost, Rhys Ifans), questi pirati sono la dimostrazione che la rivoluzione più che farla, si vive. Per loro non è una missione né una vocazione (non per tutti almeno), non gridano slogan né si impegnano. È semplicemente il loro modo di esistere, la loro essenza, qualcosa che portano avanti con il solo potere dello swag, con il loro essere intrinsecamente “rock”.
Non fanno la rivoluzione, ma sono rivoluzionari.
Dal canto nostro, ci limitiamo ad indossare i panni di Carl (Tom Sturridge), l’ultimo imbarcato sulla nave, per assistere da semplici spettatori a quanto accade. Poi però cresciamo fino a diventare parte componente della ciurma, noi come Carl. Per due ore siamo in compagnia di questi dolcissimi disagiati, impariamo a conoscere e ad amare loro e la nave stessa. Non vogliamo più scendere a ci viene solo voglia di passare ancora una serata sopra coperta o di mettere su un altro disco.
Non si può parlare di questo film senza accennare alla musica che domina la pellicola. Con una colonna sonora che pare essere stata selezionata cliccando “hit anni ‘60” su Spotify, I love Radio Rock è l’apoteosi della musica con la M maiuscola. Qualche nome? Jimi Hendrix, The Kinks, Cat Stevens, The Who, The Beach Boys, David Bowie. E questi solo per dirne alcuni.
Ma trattare la musica di questo film in maniera convenzionale, considerandola appunto un accompagnamento o all’estremo opposto la protagonista è sinceramente riduttivo. La musica non è al servizio di nessuno, né ha nessuno al proprio servizio (non è un musical). La musica è l’essenza, così come la rivoluzione lo è per i protagonisti. Ultimamente ne è uscito un altro di film che aveva lo stesso tipo di approccio, personalmente non l’ho amato molto ma i due film hanno più di una similitudine.
In effetti I love Radio Rock a me è sempre sembrato un film di Edgar Wright – senza la regia tutta pazzeschissima – che prende i temi cari al regista sbarazzino (le cose che contano veramente nella vita: il passato da superare, i pub, il derelittismo e l’emarginazione come uniche condizioni di prosperità socio-emotiva) nascondendoli però sotto i fiocchetti d’oro di Curtis (la famiglia, l’ammore, il Natale) che piacciono alle mamme e ai papà.
Come il mojito: chic fuori, certo; ma pirata dentro perdio!