I film che hanno fottuto la mia generazione
Ogni generazione viene definita dal suo background culturale. Ogni generazione affonda le sue radici (ma forse sono più che altro rizomi) in un pabulum di cultura pop(olare), che ne influenza il modo di pensare e le traiettorie. Ovviamente non sono così presuntuoso da sostenere che tutto possa essere ridotto alla cultura in cui siamo immersi, e molte distinzioni ed eccezioni si possono fare; tuttavia, nel processo di crescita e maturazione mi sembra sia corretto attribuire un ruolo all’ambiente culturale in cui siamo immersi. Film, televisione, libri (mi piacerebbe) possono influenzare le traiettorie di pensiero.
Sembra evidente ad un vecchio come me, che una generazione (la mia) cresciuta con il senso dell’onore e del sacrificio dei Cavalieri dello Zodiaco non possa essere uguale ad una generazione cresciuta con Peppa Pig, che al massimo può insegnare come NON disegnare un maiale (ringrazio comunque il dark web per aver cannibalizzato anche lei. Se siete coraggiosi, cliccate qui). Non sto stilando classifiche: non ritengo che le generazioni siano meglio o peggio, solo diverse. Non intendo neppure farne una guerra generazionale: è corretto che ogni generazione abbia i suoi stimoli in aperto antagonismo con quelli della generazione precedente. Ritengo tuttavia interessante provare a capirne le ragioni alla base di queste differenze.
Facendo un altro esempio, negli anni Ottanta si è andato definenda la compagine dei nerd. Forti ascendenti su questo processo di definizione, oltre ai videogiochi di cui non è il momento di parlare, l’hanno avuta film e serie televisive che hanno influenzato, da un lato, e provato a descrivere, dall’altro questi ragazzi. The Breakfast Club è un film fondamentale per capire questo fenomeno, così come La Rivincita dei Nerds.
Se guardati con spirito critico, inoltre, ci possono indicare perché una parte di quei nerd ha raggiunto il successo (nelle tecnologie, nelle industrie, nelle scienze), mentre un’altra parte è confluita nella alt-right americana che ha fatto vincere Trump (bianca, misogina, capace di usare i linguaggi di internet meglio di chiunque altro). E lo dico continuando a nutrire un forte affetto per gli “sfigati” del Breakfast Club e continuando a commuovermi nella scena finale.
SIGLAAAAA (e lacrimoni)
Veniamo a noi. Millenials con la testa infarcita di ideali ed idealismi, perennemente insoddisfatti della loro vita, in fuga dal nostro paese per cercare qualcosa di meglio (ma cosa, poi?), perennemente incastrati in una adolescenza allungata dalla quale usciremo (?) sconfitti. Chi ci ha ridotto così?
Due film hanno fatto, a mio avviso, un danno incalcolabile nelle nostre giovani menti. Entrambi usciti a cavallo del nuovo millennio, li abbiamo visti quando le nostre intelligenze erano altamente plasmabili e capaci di assorbire influssi ed influenze – adolescenza, pubertà, tarda adolescenza. Altri hanno fatto danni minori, ma questi due andrebbero processati per crimini contro l’umanità.
Il Favoloso Mondo di Amelie e Into the Wild. Vi prego, alzate gli scudi. Non chiedo altro.
Il primo è una sorta di favola moderna ambientata a Parigi. Per provare a cancellare il bel ricordo che ne abbiamo, mi sembra doveroso menzionare che presenta una visione della Francia assolutamente falsata, senza immigrazione, contraddizioni, tutta soffitte su Montmartre e musica di strada. E se il problema fosse solo questo, non ne sentiremmo le conseguenze a quasi vent’anni di distanza. Amelie ha sdoganato una forma di cultura “indie” assolutamente deleteria. La protagonista non vive nel mondo. Si crea un suo mondo in virtù della presunzione di essere speciale.
Non le piacciono le cose che piacciono agli altri, vede il mondo con occhi diversi ed innocenti, crede nell’amore. Sembrano cose positive, ma Amelie le esaspera, isolandosi da ogni tipo di società. La sua ingenuità non è tenera; la sua passività nei confronti dell’ambiente intorno a sé quasi patologica. La sua storia d’amore nei confronti di un personaggio del tutto simile a lei viene portata avanti per casuale serendipità, senza nessuna azione direttamente compiuta da entrambi.
Sentirsi speciali, senza esserlo; inanizione nei confronti del mondo; chiusura dentro un mondo “proprio”, diverso e volutamente mantenuto tale rispetto al mondo esterno e reale. Purtroppo per noi, non siamo speciali e non possiamo pensare di vivere al di fuori del mondo, soprattutto se abbiamo una qualche minima intenzione di cambiarlo.
Amelie non ha questa intenzione, perché a lei del mondo non interessa. Amelie non ha mici, non ha interessi veri, non ha rapporti umani. Poteva diventare un monumento di denuncia dell’estraniamento e della solitudine dell’individuo; è diventato un invito a ostentare un’espressione perennemente stupita, a non esprimere desideri e a non interagire con nessun essere umano. Ma soprattutto a ritenere queste cose, virtù.
E inoltre ha distrutto la moda femminile rendendo accettabili quei maglioncini abbottonati, che tanto piacevano anche a mia nonna, e quei vestitini a fiori senza forma. Criminale. Ha fatto più danni al femminismo di Harvey Weinstein.
Come se non bastasse, questa forma di “ingenuità” elevata a virtù cardine porta a rifiutare anche ogni forma di interazione fisica. Il corpo, in Amelie, viene completamente abolito (e questa è, forse, la differenza più grande con la protagonista di The Shape of Water), sopraffatto dalla superiorità di un’anima candida. Non sarebbe male nel 2018 riuscire a far passare il concetto che mente e corpo non sono due entità separate ed in contraddizione perenne (Mannaggia a Cartesio, mannaggia).
Danni ancora più gravi, tuttavia, sono quelli fatti dalla parabola di vita di Christopher McCandless, alias Alex Supertramp, descritta nel film Into the Wild. L’elevazione ad eroe di un nichilista stupido e con tendenze suicide è quanto di peggio potessimo fare. Tanto per rinfrescarci la mente, Chris si laurea ed abbandona la famiglia perché il padre fedifrago gli regala una macchina. Stufo delle falsità della vita borghese, decidere di vivere da solo, emulando i grandi esploratori fino a raggiungere l’Alaska, per stabilirvisi.
Lo fa rifiutando l’aiuto di chi ne sa più lui; senza provare neppure lontanamente a capire cosa significhi vivere nella natura, e senza voler rispettare quest’ultima. Giunge in Alaska senza attrezzatura, non si costruisce un rifugio ma vive in un furgone abbandonato (cazzo, perché è più hipster), uccide un alce, ma non avendo appreso i rudimenti della vita “selvaggia” non sa spellarla, né conservarla e lascia ammuffire 150 kg di carne a pochi metri da lui. Mangia bacche su cui non si era informato e muore, a pochi chilometri di distanza dalla possibilità di civiltà e di cure. Questi sono i fatti, il resto sono stronzate. Solo alla fine si ravvede e scrive l’unica frase decente in una storia (e in un film) altrimenti votato solo all’autodistruzione: Happiness is real only when shared.
Tuttavia, Chris è stato assunto ad eroe e modello generazionale, perché rifiuta la società borghese e corrotta per la vera libertà. Tralasciando che il “rifiuto della società” altro non è che una ribellione all’autorità paterna (Freud perdonali perché non sanno quello che fanno), analizziamo il concetto di libertà di Chris. Per il nostro eroe, la libertà è vivere da solo nella foresta (ripeto, senza averne appreso i rudimenti minimi), fuggendo la società e contando solo su di sé. Una sorta di delirio nichilista e anarcoide (mi perdonino i nichilisti e gli anarchici), che non prova neppure lontanamente ad interrogarsi su questi aspetti. Chris fugge. È questa libertà?
Eppure la mia generazione ne ha fatto un modello. Una guida di opposizione ad una società borghese finta ed alienante. Una società che lui non prova (e non vuole, sia chiaro) cambiare; ma da cui apertamente scappa. Questo retaggio ci porta a provare quasi invidia per chi prova a perseguire questa vita, vivendo di espedienti e tatuaggi, suonando la chitarra in giro per il mondo (e sì, la provo anche io questa invidia, ad un livello non cognitivo).
Un esempio simile, lo abbiamo nella trasposizione Disneyana del motto swahili “Hakuna Matata”. Ne Il Re Leone, infatti, Simba abbraccia questa filosofia, che consiste (è una semplificazione Disney, sia chiaro) nel vivere senza porsi problemi: trova il cibo, spostati, non avere radici, casa, preoccupazioni e pensieri. Una filosofia autarchica ed autodistruttiva che lo avrebbe portato a lasciare il suo popolo in balia di un tiranno affamatore e di tre iene stupide. Ciò che distingue Simba da Chris è l’intervento provvidenziale della figura più potente e risolutiva della cinematografia Disney: Rafiki. La vecchia scimmia ricorda a Simba che non si può vivere al di fuori del mondo e che se vogliamo distinguerci, dobbiamo agire e provare a cambiarlo.
Quella che Chris spaccia per libertà è al contrario assenza di responsabilità. Ecco il messaggio di Rafiki. Assenza di responsabilità nei propri confronti e nei confronti degli altri. Libertà non significa fregarsene degli altri (e di se stessi), non significa negare le difficoltà semplicemente girando la testa o considerarsi superiori alle leggi, anche di natura come dimostra la parabola di Chris. Questa assenza di responsabilità è fra le cattive abitudini più negative della mia generazione. Senza una reale presa di responsabilità, non potremmo mai pensare di cambiare la situazione in cui viviamo, quella che ci rende così insoddisfatti. Senza provare a cambiarla, quale diritto abbiamo di lamentarcene?
Togliamoci i maglioni di mia nonna, scacciamo il concetto fasullo di libertà e rimbocchiamoci le maniche! Rafiki, aiutaci tu.
Credo che “Into the wild” più che un modello da seguire sia stato per molti il pungolo a riflettere su l’effettivo senso di libertà e conseguente felicità. Sarà effettivamente solo alla fine l’unica frase sensata del film ma mi piace pensare che sia proprio quello il colpo di scena voluto per mettere in crisi lo spettatore e capire quanto la felicità non necessità di fughe lontane da tutto e tutti ma di imparare a riapprezzare quello che si ha già intorno e cambiarlo in meglio
Caro Giaguaro, speriamo vivamente che sia come dici tu! Purtroppo temo che spesso venga vissuto e visto solo come un invito a saltare sul treno ed a cercare la “libertà” altrove. Anche secondo noi la fuga non serve alla felicità, ma bisogna partire da ciò che abbiamo intorno a noi.
OK boomer