Holly Herndon. Utopie pop dal futuro
“Credo che arriveremo al punto in cui quasi tutto quello che facciamo sarà fatto dalle macchine. Le persone serviranno ancora, ma se mi chiede se ci sarà mai un’intelligenza artificiale in grado di fare film: assolutamente sì. Ma sarebbero belli quanto i suoi? Certo che no. Ma credo che quasi tutto di quello che facciamo le macchine lo facciano meglio, e la ragione per cui è così è che le macchine imparano più velocemente dell’uomo” (da Lo And Behold, di Werner Herzog)
L’altra sera stavo a quindici metri da Werner Herzog. Al Biografilm di Bologna, in un evento emozionante e partecipatissimo, il cineasta tedesco – uno dei più grandi di tutti i tempi, per quel che mi riguarda: provatevi a trovarla altrove, quella qualità media – presentava uno dei suoi ultimi lavori, Family Romance LLC. Una specie di docudrama che mette in scena l’attività di una vera società giapponese che si occupa di affittare familiari fittizi a chi ne abbia bisogno: nel caso della storyline principale, un uomo impersona il padre di una ragazzina dodicenne da cui la madre aveva divorziato molti anni prima.
L’opera – girata guerrilla style con un telefonino a Tokyo – è un succedersi di storie diverse con il comune denominatore di una mostruosa solitudine, accentuata dall’invecchiamento della popolazione e dagli stili di vita irrealistici e di pura finzione che erompono dai feed dei nostri social network (“Instagram is supposed to be friendly. So why is it making people so miserable?”, si chiedeva un articolo del Guardian qualche tempo fa).
Pane per i denti del più grande documentarista vivente, pure in un contesto di fiction su commissione, che trova apici nella hall di un albergo in cui l’intero staff – compresi i pesci in un acquario – è composto da robot e nella passeggiata di una wannabe star che per farsi notare si circonda di un codazzo di finti paparazzi. Un mondo nuovo di cui Herzog aveva già raccontato – forse in modo meno tagliente – nel precedente Lo And Behold, raccolta di fantasticherie sul nostro mondo connesso.
Un mondo nuovo in cui nulla è più distinguibile: non la verità dalla finzione, non l’analogico dal digitale, non l’umano dal robotizzato (“dammi tre parole / la piena automazione”, diceva un meme oggi). Una riflessione critica che viene naturale associare e contrapporre a PROTO, nuovo album dell’instancabile sperimentatrice Holly Herndon, uscito su 4AD a inizio maggio.
“Per i primi sei mesi è stato un disastro. Mi sembrava che non funzionasse nulla. Abbiamo ottenuto i primi risultati utilizzando un network neurale, che lavora sui singoli campioni di suono. La maggior sorpresa è stata Godmother, la traccia con Jlin. Ho creato un mio modello vocale per alimentare Spawn, con discorso e canto. Lei ha interagito con la musica di Jlin, una performance somigliante a uno strano beatbox. La cosa sorprendente è che io non l’avevo mai allenata ad una risposta percussiva. È stato il network neurale a combinare i miei vocalizzi, in modo da dar loro una interpretazione nuova.” (da un’intervista su Rumore di maggio)
Che cos’è, dunque, questo PROTO? In estrema sintesi: quarantaquattro minuti di pop contemporaneo, decine di voci umane e un’intelligenza artificiale per una visione della tecnologia come strumento tutt’altro che de-umanizzante. Una tecnologia che per Herndon – pur con tutte le evidenti controindicazioni – è invece amica e compagna di viaggio verso un futuro in cui l’umano sia visibile dentro la macchina.
Parte tutto da Spawn, AI sviluppata con l’aiuto di un programmatore (Jules LaPlace) e allenata a rispondere a set vocali preparati per l’occasione: Herndon ha organizzato vere e proprie training session pubbliche all’Institute for Sound & Music di Berlino, di cui ha voluto lasciare un segno nell’album (le brevi Canaan e Evening Shades, tre minuti in tutto, arrivano proprio da lì).
Ne viene fuori un’opera-mondo di straordinario fascino, e non solo puramente intellettuale. La sperimentazione trova una sorprendente sintesi pop in una serie di frammenti che agganciano l’ascoltatore e in cui però è totalmente indistinguibile ciò che arriva da persone in carne e ossa da ciò che invece è pura rielaborazione informatica. Lasciatemelo dire: oltre che indistinguibile, è anche totalmente ozioso stare a ragionarci troppo, se questi sono i risultati.
“Fu un’esperienza di acqua e interconnessioni. Ero coi miei nonni su una barca a remi a Chicago, quindi devo aver avuto cinque anni, e trascinavo la mano in acqua. Contemplavo come l’acqua si muoveva tra le mie dita, come si aprisse da una parte e si chiudesse dall’altra, e questo sistema mutevole di relazioni in cui tutto era un po’ simile, un po’ lo stesso, e tuttavia diverso, era assai difficile da visualizzare ed esprimere, e rapportandolo a tutto l’universo, e cioè che il mondo è un sistema di sempre mutevoli relazioni e strutture, mi sembrò un’enorme verità, e lo è” (Ted Nelson, sempre in Lo And Behold)
Kate Bush e Bjork, dice la recensione di Rumore non a torto, e l’influenza di quelle due icone è sicuramente fortissima su figure come Holly Herndon; ma qui c’è anche molto altro, da un’artista che non esce negli anni ottanta o novanta, ma ai tempi di gente hi-tech come FKA Twigs o Arca. La musica vocale sacra, ad esempio, come emerge chiaramente dalla sublime Frontier, in apertura del secondo lato del vinile (sì, l’ho comprato in vinile, PROTO, per percepire con ancora più forza lo svanire dei confini); il battito melmoso, cupissimo del trip-hop nella conclusiva Last Gasp; lo sbrilluccicare contemporaneo – non c’è nulla che ascolterei più volentieri, ora come ora, alle quattro del mattino in auto – di Alienation, Eternal o SWIM.
Ma alla fine ha ben poco senso il track-by-track di un’opera d’arte come PROTO, microchip emozionale che in uno sfoggio mai gratuito di tecnologia e velleità sperimentali disvela sentimenti umanissimi: l’emozione per i primi vagiti di Spawn in Birth e il suo stentato procedere a tentoni nella già citata Godmother; l’angosciante “why am i so lost?” a cappella di Crawler e le domande esistenziali di Extreme Love sul senso stesso del genere umano – sorta di specie intermedia e non definitiva, semplice strumento per la diffusione di batteri e precedente l’avvento di qualcosa di più evoluto.
E allora è facile immaginare PROTO come naturale prosecuzione delle fantasticherie Herzog-iane. Non so cosa penserebbe il vecchio Werner di un’artista come Holly Herndon e della sua visione di un futuro tecnologico non distopico (mentre sono certo che quel matto di Ted Nelson l’amerebbe alla follia, vicina com’è allo spirito comunitario dell’Internet della prima ora), ma sono certo che lo struggente desiderio comunicativo e umanista che esplode da queste tracce non potrebbe lasciarlo indifferente.
Perché riconoscerebbe di sicuro in lei quella stessa fiamma d’inestinguibile curiosità che lo spinge a navigare le anse più misteriose dell’esistere umano da oltre mezzo secolo, con la sola arte a fargli da stella polare.
Titolo | PROTO
Artista | Holly Herndon
Durata | 44’
Etichetta | 4AD