Heavy Rain | From father to son
Piove ormai da giorni.
Meno di una settimana fa una fugace nevicata ha quasi fatto pensare potessimo essere alle porte dell’inverno, ancora in lockdown. Ma, in poco tempo, un grigio e scrosciante autunno ha ripreso il sopravvento. Ancora una volta, la situazione migliore per riscoprire album\libri\giochi che ho sempre messo da parte con l’idea di tornarci su, prima o poi.
Questa volta è toccato a Heavy Rain, pietra per certi aspetti miliare e per altri di scandalo nel genere delle avventure grafiche.
Già dal titolo, direi che il mood è quello giusto.
Gioco prodotto da David Cage e dai ragazzi di Quantic Dreams come esclusiva Play Station 3, Heavy Rain ha provato a tracciare una strada che riuscisse a fondere l’esperienza videoludica con quella cinematografica, ispirando poi tanti giochi successivamente, come Life is strange, di cui si è già parlato su SALT.
Cage e soci in realtà non sono nuovi ad esperimenti simili, avendo già tirato fuori Omikron: the nomad soul, particolare action-adventure con David Bowie nel cast di personaggi, e Fahrenheit, terribilmente affascinante per le prime ore di gioco, terribilmente piatto dopo.
I ragazzi di Quantic Dreams a questo giro sono riusciti nella loro opera alchemica?
Come avrete capito, sì e no. Ma andiamo con ordine.
Stiamo parlando di un’avventura grafica in terza persona travestita da film noir\thriller interattivo, in cui il giocatore controlla, in base al capito in atto, uno tra quattro personaggi, disegnati sulle fattezze di attori in carne e ossa: Ethan Mars (Pascal Langdale), padre alla ricerca del figlio Shaun, rapito da un serial killer, Norman Jayden (Leon Ockenden), agente dell’FBI dall’avveniristica dotazione tecnologica reclutato dalla polizia per le indagini, Madison Paige (Jacqui Ainsley), giornalista alla ricerca della verità, e Scott Shelby (Sam Douglas), detective privato ingaggiato dalle famiglie delle vittime del killer per individuare il colpevole.
Il personaggio in controllo può muoversi in ambienti completamente tridimensionali, interagendo con altri personaggi, con oggetti o, nel caso di Jayden, osservando il mondo attraverso gli occhiali\visori ARI, che gli permettono di ricercare prove, catalogarle e studiarle in una realtà virtuale.
Una delle particolarità di Heavy Rain è proprio nella modalità di interazione con ciò che ci circonda: se i dialoghi con i personaggi prevedono le tipiche opzioni multiple, l’utilizzo degli oggetti porta spesso a dei veri e propri minigiochi in cui bisogna premere dei tasti o addirittura muovere in un certo modo il joypad.
Se in certi casi questo può portarci ad alzare un sopracciglio e a chiederci che diamine stiamo facendo, va detto che spesso le combinazioni sono coerenti con l’azione compiuta, soprattutto durante i “quick time event”, momenti del gioco – piuttosto concitati, come si può intuire – in cui le combinazioni di tasti possono determinare la sopravvivenza del personaggio in uso ed il compimento di azioni che possono condizionare profondamente il corso degli eventi.
L’idea, per quanto già sperimentata in parte in Fahrenheit, rimane comunque originale e ha il suo perché, dato che la struttura narrativa e cinematografica a bivi è sicuramente l’aspetto fondamentale di Heavy Rain.
Ethan Mars, già citato in precedenza, è un architetto di successo. Nel capitolo iniziale, lo si vede godersi i preparativi del compleanno di uno dei suoi figli, Jason, in compagnia di sua moglie Grace e dell’altro figlioletto Shaun. Una scena idilliaca, anche troppo per durare. Il sottofondo musicale trasmette una malinconia che fa inevitabilmente intuire come andranno le cose: la famigliola va a fare shopping, Ethan perde di vista Jason, che attraversa incautamente la strada.
Ethan si lancia per salvarlo, invano.
Jason non c’è più, suo padre rimane in coma per mesi.
Fast-forward: la famiglia Mars è distrutta, Ethan vive da padre divorziato e divorato dai sensi di colpa, cercando di ricostruire il rapporto con Shaun e cercando di affrontare la sua fobia sociale ed i lunghi momenti di black-out, in cui perde completamente cognizione di sé e delle sue azioni. In uno di quei momenti, perde fatalmente di vista il figlio, che sparisce nel nulla mentre gioca al parco. Potrebbe sembrare un banale allontanamento, non fosse per il fatto che da mesi un misterioso serial killer rapisce bambini per poi annegarli e farli ritrovare dopo qualche giorno senza vita con un’orchidea ed un origami a forma di animale tra le mani.
Da lì, il soprannome di Killer dell’origami (non particolarmente originale, ma appropriato N.d.A.).
È questo il punto di partenza per la discesa di Ethan Mars nell’abisso del terrore, tra le accuse della polizia, la solitudine e le prove disumane alle quali lo sottoporrà il killer per sfidarlo a ritrovare suo figlio nelle poche ore che lo separano dalla morte. La sua storia, dicevamo, si intreccerà con quella di altri personaggi già citati: l’agente dell’FBI talentuoso ma con qualche problema di dipendenze, la giornalista insonne e paranoica, l’investigatore privato hard-boiled.
L’atmosfera è densa, avvolgente e opprimente, la fotografia è ricercata e funzionale e i personaggi sono ben realizzati. Ottimi elementi per tenere il giocatore attaccato allo schermo.
Ma la trama? Funziona solo a metà.
La prima parte del gioco scorre bene e coinvolge, capitolo dopo capitolo veniamo catturati nella cupa rete del thriller. La riuscita dei quick time event, la sopravvivenza dei personaggi e le scelte compiute permettono di sbloccare determinati capitoli piuttosto che altri, con la possibilità, alla fine, di gustarci ben 17 finali diversi e garantiscono un livello di sfida ed una certa curiosità.
Ciò che non va è il fatto che tutta la suspence e il climax vadano a farsi benedire proprio sul finale. In particolare, la rivelazione dell’identità del killer sembra frutto di una scelta frettolosa, quasi come se gli autori si fossero ricordati all’ultimo di definire un colpevole, rendendo inevitabilmente discutibili alcuni eventi della trama, che finisce per avere dei buchi narrativi in un paio di casi grossolani.
Fortunatamente, il comparto tecnico fa il suo dovere. La versione per Play Station 4 presenta una grafica maggiormente rifinita rispetto all’originale, con personaggi e ambientazioni di miglior livello, peccato che con il restyling non si sia potuto fare troppo sull’espressività dei personaggi che oggi, per un gioco così, appare limitata. Stesso dicasi per il frame-rate basso che, soprattutto nei momenti più concitati fa perdere parecchio dinamismo alla scena. Menzione di disonore piena, invece, per la telecamera, che risulta spesso ingestibile e complica non poco la giocabilità del titolo.
Le musiche cupe e malinconiche invece immergono bene e l’audio è in generale buono. Il tema musicale principale, in particolare, con le sue note di pianoforte malinconiche a sovrastare la sempre presente pioggia, è sicuramente il pezzo forte del piatto. Il doppiaggio inglese non è sempre ai massimi livelli e spesso ha un’intensità troppo differente dai movimenti facciali e del corpo dei personaggi, ma è comunque sicuramente preferibile a quello italiano, troppo fiacco per coinvolgere il giocatore/spettatore.
Sui problemi tecnici, legati ad un progetto forse troppo ambizioso per la tecnologia dell’epoca, si può comunque chiudere un occhio, soprattutto contando che complessivamente siamo ben sopra la sufficienza. I problemi concettuali e narrativi invece lasciano tanto amaro in bocca per quello che, soprattutto alla luce di un risultato finale molto buono e affascinante, sarebbe potuto essere e che non è stato fino in fondo.
Alti e bassi in vari ambiti, quindi, per un gioco che ha fatto discutere ma che non fa a meno di affascinare e rimanere nel cuore di chi si lascia rapire da certe atmosfere.
Heavy Rain è un viaggio noir emotivamente intenso, che si sposa alla perfezione con delle giornate piovose come queste. Imperfette, ma che non riusciamo proprio a farci dispiacere.