Un paio di settimane nel Kansai, parentesi obbligatorie a Tokio e Hiroshima, un volo da Osaka a riportarmi a casa. Una scorpacciata di Giappone, fissata in vari rullini, qualche souvenir e una raccolta di haiku.
Nella tradizione poetica giapponese, gli haiku sono brevi componimenti – 3 versi, 17 “sillabe” in totale – peculiari per collocarsi in una stagione attraverso cenni naturalistici o ad episodi del quotidiano.
Oggettini strani ed affascinante per me, uomo occidentale, volgare turista tanto in terra nipponica quanto nella sua letteratura.
Nebbie della sera.
Assorto, il pensiero indugia
sui ricordi indistinti di un tempo –
La natura dei ricordi del poeta, il loro essere indistinti che dialoga con l’immagine della nebbia, la possibilità che queste nebbie della sera siano i pensieri sbiaditi di chi è al tramonto dell’esistenza, o magari – perché no? – i fumi di una serata innaffiata di saké, e tanto altro ancora… Senza quasi accorgermene, l’istinto speculativo ed interpretativo ha preso il sopravvento.
Potrei allora seguire questo impulso a voler capire a tutti i costi, a connettere e interpretare, fino a sconfinare nell’arida masturbazione intellettuale, ma mi allontanerei enormemente dall’essenza degli haiku. Queste poesie infatti si giocano sui campi della contemplazione meditativa, della presa di distanza dalle cervellotiche iper-realtà tanto care al postmoderno.
L’haiku è ascolto non solo delle parole ma dei silenzi tra esse o dei suoni che generano. Non a caso l’alfabeto giapponese include particolari caratteri con funzione di “parole-pausa”, o che esprimono il puro suono del significante senza significato; tutti elementi di intraducibilità ma soprattutto di distanza culturale tra l’occidente che nomina, battezza e l’oriente che guarda, contempla.
Di rara bellezza,
un aquilone
si leva verso il cielo
dalla capanna del mendico
Abituato ad una poesia generalmente prolissa, che cerca incisività, che propone – e talvolta impone – la realtà decostruita e riassemblata del poeta, mi riscopro impreparato ad osservare questo tenue dipinto verbale. L’immagine è così minuta e timida che sembra giungere in punta di piedi al lettore.
Forza, eccesso, sovrabbondanza, cedono il passo ad una delicatezza tiepida ed avvolgente che non vuole colpire, bensì sfiorare.
Un giorno di pioggia –
Lungi è dalla capitale
la mia casa dai peschi ora in fiore
Lo stato di natura si riflette nello stato psicologico o emotivo del poeta, sottendendo la contiguità armonica del poeta-osservatore e del mondo-osservato. Un continuum tra la natura e l’umano che rivela il carattere non divisivo dell’haiku, ma di unità che serba in sé tracce di animismo.
Nessuna morale, concetto definitivo o universo metabolizzato. C’è un istante fissato dal poeta e c’è un lettore che osserva questo istante e lascia fluire in sé sensazioni senza esatta definizione, che si amalgamano con le particolari emozioni di quel momento. Si incrina l’abitudine al processo esegetico mentre si riscopre il piacere del puro flusso emozionale, quasi si ascoltassero note anziché parole.
Ed io ascolto: apprezzo l’”estetica minima” – per dirla alla Cocteau – e la fine armonia di questi versi. Eppure sento che c’è qualcosa di ineffabile; qualcosa che ha forse a che fare con i templi adagiati sulle colline boscose, con l’eleganza dei giardini giapponesi, con i passi attenuati dai tatami delle abitazioni tradizionali. Una bellezza che in parte sfugge ai miei sensi occidentali.
Chissà, forse Kipling aveva ragione: “sciocco è colui che tenta di forzare l’Oriente”