Divoravo Grief is the thing with feathers di Max Porter sdraiata sul divano, enorme e bianco, di una terrazza nel centro di Londra. Un torace amatissimo sotto la nuca, i battiti del cuore lenti. Pochissimi aerei e nessuna nuvola a fendere il cielo fra le ginocchia piegate e le foglie sanguigne dell’acero giapponese.
C’erano stati, prima di suddetto quadretto di quiete, tantissimi passi su e giù per le strade, risate risate risate, una mostra colma di bellezza, librerie, progetti quasi senza termine. E un ramen bollente che poteva correttamente definirsi de Cristo, zi’.
C’era una brezza benedetta nel disastrato clima di luglio. C’era una felicità latente che accecava, come il candore forte dei cuscini. La pace e il cuore danzante e la coca zero fresca sul tavolino.
Insomma, il contesto perfetto, per leggere un libro sulla morte.
Il dolore è una cosa con le piume. Successo esplosivo nel 2016, ristampe, traduzioni, una trasposizione al Barbican con Cillian Murphy, un album strumentale con lo stesso titolo. Il titolo, che già porta con sé una poetica densa, un brivido lungo la schiena, ha già pronti due o tre interrogativi. Perché in un volume breve e senza impaginazione classica si dipana il lutto di una famiglia, una casa londinese a più piani ad un tratto vuota, e allo stesso tempo stracolma di dolore, una madre morta all’improvviso.
Porter crea una luminosa prosa senza parentesi, virgolette o consecutio, tanti monologhi uno dopo l’altro a testimoniare i pensieri frullanti nelle teste dei chiamati in causa. Quasi una pièce teatrali, e protagonisti tragici nel più Euripidico significato del termine.
C’è un padre, negli ultimi metri della gioventù, letteralmente nell’occhio del ciclone, schiacciato sotto il trauma, sotto il vuoto dell’amore assente, la paura fottuta dell’indomani. Due bambini che sono quasi una monade, parlano all’unisono, pensano (quasi) all’unisono, affogano il dolore in qualche sparuto preavviso di violenza, si illudono di ritorni nella notte. E poi c’è Corvo.
Corvo, la cosa con le piume. Corvo arriva con le sue ali nere, le sbatte in faccia alla famiglia orfana, si autoeleva a divinità domestica ingombrante, impositiva: I won’t leave until you don’t need me anymore.
Me ne andrò quando non avrete più bisogno di me.
Come Mary Poppins, ma si porta dietro l’odore rancido della putrefazione, occupa gli spazi e le conversazioni, rompe i coglioni e travolge ogni tentativo di recuperare la normalità, la situazione di prima. Diventa amico, analista, babysitter, deus ex machina – come tanto gli piace autodefinirsi, perché è aulico – e ancora consigliere, cantastorie, bodyguard. Controcanto delle disperazioni. Spalla e piume su cui piangere.
Corvo commuove e disintegra, disarticola il linguaggio e appiana lo spirito, fa un’opera certosina dell’asciugare le lacrime. Le lacrime che sgorgano fuori e quelle che covano dentro. In un monologo immaginifico Corvo distrugge the demon who fed on grief, il demone che si ciba di dolore, il digradare verso il vuoto: lo fa letteralmente a pezzi, e libera delle zavorre dell’assenza il cuore della famiglia. Si prende cura del nido.
Per lungo tempo ho pensato che i corvi fossero bestiacce. Attaccano i gatti, decapitano i piccioni, distruggono le piante sui balconi. Però fanno i nidi e difendono i figli con gli artigli fino alla fine, finché non crepano, o crepa la minaccia. Ci ho ripensato. Mi piacciono i corvi, ora, e mi piacciono grazie a Max Porter: ché Corvo ha un aspetto minaccioso solo perché deve fare paura alla disperazione, ma poi è tutto piume morbide, carezze, strenua difesa dai sussulti.
L’ho finito, il libro. In poco più di un’ora, cambiando l’incrocio delle gambe di tanto in tanto, un ridacchiare sparuto e liberatorio misto al corrucciarsi della fronte. Voglio bene a Corvo, che è una percentuale variabile di piume nere, sarcasmo e tenerezza. Voglio bene al padre, che è una bussola senza rotta, e ha l’anima fragile ma resiliente. Voglio bene ai figli, che imparano a prendersi cura del padre, e che urlano con lui come matti, senza senso,
I LOVE YOU I LOVE YOU I LOVE YOU
nell’ultima pagina. Le parole, le urla, la liberazione dal dolore e dalle ceneri un martedì sulla spiaggia. Il caps lock che mi ha mandato in frantumi – le lacrime che non frenavano lungo le guance. Il libro stropicciato dalla stretta delle dita e i cuscini a chiazze. Il tuo braccio fermo a stringermi le spalle, con le mie mani aggrappate contro i singhiozzi.
Nel libro di Max Porter la forza delle parole esplode, ed è come andare dall’analista, fare una ricognizione delle nostre benedizioni, contare testa per testa tutto l’amore che abbiamo, ringraziare in silenzio perché tutti loro ci sono, qui o da qualche altra parte, ora. La terapia e la gratitudine.
Leggere il lutto e affogare nel miele caldo e nero della perdita senza scampo è stata una corsa, senza prendere fiato, persa nella lirica di quelle parole toccavo il fondo, puntavo i piedi, spiccavo un salto, tornavo in superficie a respirare. Io davanti alle ricuciture del dolore dentro questo libro che non è prosa ma fiaba e poesia, manuale di self-help, storia domestica e mitologica, strozzavo le pagine e silenziosamente ripetevo
grazie, per questo cielo azzurro,
grazie, per queste pagine che profumano di libro nuovo,
grazie, per i voli low cost,
grazie, per i corvi che difendono i nidi,
grazie, per tutta la potenza delle parole.
Il libro era finito. Faceva quasi freddo. I battiti del tuo cuore erano ancora lenti.
***
Titolo | Il dolore è una cosa con le piume
Autore | Max Porter
Casa editrice | Guanda
Anno | 2016
pp. | 128