Greenwhich, ossia la tranquillità dell’occhio del ciclone
Se vi dicessi che rimanendo tranquillamente a Londra – quella caotica metropoli multiculturale che di autenticamente inglese ha giusto i palazzi del governo, le bandiere che sventolano qua e là, il clima e lo stile confuso dei rari nativi che si incontrano per strada – si può camminare sereni in una quieta vietta di bassi edifici dai tetti spioventi senza preoccuparsi dei rumori della città, delle luci al neon o del capitalismo imperante? Se ci si potesse gettare, senza pensiero alcuno, sul morbido fianco di una collina ad ammirare una rara e preziosa giornata di sole respirando a pieni polmoni a pochissimi kilometri da alcuni dei centri più frenetici della finanza globale?
Se aggiungessi che basta poco, pochissimo? Mettiamo, ad esempio, che sia sufficiente prendere uno degli infiniti battelli che solcano placidi il Tamigi ad ogni battito di ciglia. Sedersi sul tetto della barca tra i turisti con il naso immerso in qualche costosa macchina fotografica o assorti in un selfie panoramico e sentire il pungente venticello inglese che scompiglia i capelli mentre una voce registrata ogni tanto si abbandona, descrivendo quanto vi circonda, in qualche battutina zuppa di humor britannico. Oppure avventurarsi al di fuori del dedalo della metro londinese e azzardarsi a provare la DLR, sfrecciando sbalorditi tra palazzi altissimi e quartieri talvolta fatiscenti, ben lontani dalle luci costantemente puntate sulla Londra più famosa e battuta.
Direzione: Greenwhich.
Chiunque abbia mai compiuto un viaggio abbastanza in là da implicare jet lag lo sa che è da Greenwhich che deve partire per contare quante ore di fuso orario allontanano due luoghi. A dire il vero, chiunque abbia mai frequentato una lezione di inglese o geografia nella propria vita dovrebbe esserne sbadatamente a conoscenza. Per convenzione e per quella tendenza tutta inglese a darsi un’importanza notevole, il fulcro attorno a cui si costruisce ogni mappa, la linea che divide il mondo a metà dimora in un angolo di mondo che sembra dimentico del tempo stesso. Un microcosmo che confonde lo spazio-tempo, dove convivono un folcloristico villaggio dal fascino squisitamente inglese trapiantato in una capitale avanti anni luce; un museo all’aria aperta di quella che è stata per secoli la marina più temuta al mondo; un osservatorio da cui ammirare non soltanto l’immensità dell’universo ma anche, ad occhio nudo e senza andare tanto distante, la frenesia vibrante di Londra – abbastanza vicina da poterla ipoteticamente toccare allungando appena la mano eppure lontana spiritualmente come se a dividere Greenwhich dalla City non fosse soltanto il Tamigi ma piuttosto un invalicabile oceano.
A spiazzare, forse, è il contrasto. Il fatto che in meno di mezz’ora sia possibile trovarsi da una via affollata colma di gente che corre verso qualsiasi direzione (fisicamente e mentalmente) ad un villaggetto dove regnano quella cura del minuscolo dettaglio che sa di tè delle cinque preparato con il latte in una tazza di ceramica antica e quella sensazione che nulla di importante abbia intenzione di accadere a breve.
Come nell’occhio del ciclone tutto appare statico all’inverosimile, a Greenwhich il tempo, più che essere controllato e misurato alla perfezione da strumenti sofisticati sembra prendersela con comodo.
In un negozietto di CD di seconda mano sono appena arrivati gli anni ’60 e troneggiano fieri vinili dei Pink Floyd ad una manciata di spiccioli, mentre nel seminterrato vai a pescare tra perle dimenticate lì da chissà quale giovane adulto pentito delle proprie scelte adolescenziali. Lì a fianco, una bottega variopinta si specializza ancora nella vendita di caramelle di ogni gusto, colore e forma come ai tempi dei nostri nonni. Nel Greenwhich Market le lancette si spostano ancora indietro, tra antiquariato di ogni forma e condizione, vecchi, adorabili libri polverosi e cianfrusaglie indistinte.
A camminare tra le colonne solenni dell’Old Royal Navy College – un po’ Washington, un po’ Oxford – il neoclassicismo dei bei tempi d’oro della corona britannica splende ancora di luce propria. La Cutty Sark, ancorata nel porto da anni e ormai ridotta ad un’altra semplice attrazione turistica, non può che richiamare alla mente immagini di barche gloriose che sfidano gli oceani per avvicinare l’Inghilterra ad un Oriente allora ancora indomito.
Eppure basta poco, per spezzare la magia. Capita così: stai cercando di avvicinare uno scoiattolo con qualche briciola di una merendina dimenticata sul fondo della borsa nel cuore rigoglioso di un Greenwhich Park in fiore e qualcosa ti distrae. Lo percepisce, la tua coda dell’occhio. E così ti trovi a fissare il vicino Millennium Dome, vero e proprio mostro di architettura contemporanea e tempio dell’intrattenimento capitolino. L’occhio del ciclone è passato, e il tornado che è la vita a Londra sembra reclamare, ancora una volta, la tua undivided attention.