Godspeed You! Black Emperor | Sinfonie elettriche per la fine dei tempi
Per chiunque mastichi di musica indipendente, la Constellation Records è una delle etichette più importanti degli ultimi venti anni, che ha dato una casa a lavori fondamentali nell’ambito del post-rock più sperimentale – per far prima, trovate un ripasso veloce su 10 album-chiave a questo link. Tra tutti i progetti che hanno fatto la storia della label, però, quello che ha saputo cogliere meglio di tutti lo spirito del proprio tempo è quell’orchestra aliena che risponde al nome di Godspeed You! Black Emperor.
Come suona, cosa fa una band col punto esclamativo nel nome?
A farla breve, a voler trovare uno slogan, potremmo dire sinfonie elettriche per la fine dei tempi. Sin dagli esordi l’ensemble canadese – che in misura più o meno stabile ha sempre compreso tre chitarre elettriche, un paio di bassi e contrabbassi e altrettante batterie, violino e nastri preregistrati – ha messo in piedi cattedrali di puro suono per raccontare né più né meno che l’Apocalisse, la fine del mondo così come lo conosciamo; e in un senso molto politico, dato che ogni loro uscita è un atto d’accusa verso il turbocapitalismo guerrafondaio. Non esattamente l’epitome della non-violenza, eh. Sul retro di Slow Riot For New Zero Kanada campeggiano le istruzioni per fabbricare una molotov, in Yanqui U.X.O. c’è una mappa – non proprio accuratissima, ammetterà lo stesso gruppo – dei rapporti fra alcune major musicali e il traffico internazionale di armi da fuoco.
Una musica strumentale che accarezza, stride e fa paura per profondità e impatto fisico. Se l’idea di un nuovo album dei Mogwai, oggi, è una cosa che mi fa rabbrividire (gli arpeggi da colonna sonora, i crescendo sempre uguali. In definitiva la noia), con i GY!BE so che questo pericolo non c’è mai. Mi aspetteranno sempre composizioni lunghe e intricate, esplosioni di elettricità, temi portanti che verranno ripresi nel corso dell’opera – in un senso molto vicino alla classica e al jazz, o quantomeno all’idea che di classica e jazz hanno altri grandi come i Dirty Three – e un senso di minaccia incombente: se il Neil Young di On The Beach se ne stava sulla spiaggia osservando la pesantezza immane delle nubi estive, cariche di pioggia, i GY!BE sono l’uragano in arrivo. Non è un caso, io credo, che il loro brano più rappresentativo si chiami Storm.
Tutto questo lo ritroviamo in Luciferian Towers, nuovo lavoro che segue Allelujah! Don’t Bend! Ascend! e Asunder, Sweet And Other Distress, a formare un terzetto di album che ha sancito il ritorno sulla scena dei Godspeed dopo dieci anni di pausa. Tre album di qualità differente, ma tutti assai compatti. Se all’inizio della loro carriera, nei capolavori F# A# Infinity e Lift Your Skinny Fists Like Antennas To Heaven (i titoli non sono colpa mia!), trovavamo atmosfere spezzate ed eteree, inframmezzate a tornado chitarristici e field recordings, in queste ultime uscite tutto si è compattato in composizioni molto quadrate, in cui la meta – il tema che esplode di elettricità melodiosa dopo una preparazione che può durare diversi minuti – sembra essere diventata finalmente centrale quanto il viaggio. Particolarmente in Luciferian Towers, probabilmente il più riuscito della trilogia.
Le tracce sono sempre quattro, come da tradizione. Undoing a Luciferian Towers è l’apertura: dissonanze di elettriche, violini e fiati, fino a riconoscere una parvenza di melodia, che si farà piena solo verso la fine degli otto minuti. Segue la tripartita Bosses Hang, titolo quantomai esplicito per un altro quarto d’ora di grande musica: anche qui il finale è l’acme epico del brano, ma in mezzo c’è tutto un lungo crescendo ritmato – la cassa della batteria a far crescere l’ansia – che può ricordare molte cose delle orchestre indie anni ‘00 (penso ai Broken Social Scene di You Forgot It In People).
Fam/Famine è l’intermezzo che non può mancare in un album dei Godspeed, come se i musicisti, dopo tanta intensità, dovessero ritrovare le forze, accordare gli strumenti per lanciarsi ancora una volta nella rielaborazione di un riff conosciuto (in questo caso, quello della traccia d’apertura). Ritrovare le forze, o forse risparmiarle in vista di quello che sta per arrivare: a chiudere Luciferian Towers arriva l’enorme Anthem For No State – praticamente una delle loro migliori cose di sempre. E parliamo di una band che non ha mai inciso nulla che fosse meno che buono.
Qui, al principio, le sei-corde di Menuck, Moya e Bryant sono quiete, spettrali, intrise di una malinconia da western che commuove: siamo diventati Neil Young sulla spiaggia, contempliamo il disfacimento del mondo aspettando l’uragano. Che puntuale arriva intorno al sesto minuto, quando i nostri letteralmente accendono i distorsori: di qui e fino al termine dell’album è tutto un rivoltarci la terra e i cadaveri sotto ai piedi, con il drumming che si fa incalzante, i bassi che martellano e le chitarre che assumono tonalità quasi stoner, tanto sono pesanti. E quando arrivi alla fine è chiaro cosa intendessero i musicisti, descrivendo questo brano prima dell’uscita dell’album: “il Kanada, svuotato di minerali e del suo sporco petrolio. Privato di alberi e acqua. Una cosa rovinata, che affoga in una pozza, ricoperta di formiche. All’oceano non frega un cazzo, sa che sta morendo pure lui”.
Come per i grandi classici jazz, per i Godspeed You! Black Emperor l’incisione da studio è solo un documento di una transizione in corso. Ora che lo ascoltiamo, loro sono già da un’altra parte, pronti a travolgerci ancora una volta con le loro tempeste; a chiederci di non girare la testa, di agire per rimettere a posto le cose. Per far tacere, una volta per tutte, chi questo mondo l’ha distrutto.
Francesco Pandini
Album | Luciferian Towers
Artista | Godspeed You! Black Emperor
Etichetta | Constellation Records
Anno | 2017
Durata | 43:50