Godspeed You! Black Emperor | Per ogni fine, un inizio

Godspeed You! Black Emperor | Per ogni fine, un inizio

Godspeed You! Black Emperor
Grywnn, CC BY-SA 4.0, attraverso Wikimedia Commons

La paura del gelo, di un gelo perenne. Mentirei se non dicessi che anche oggi, dopo un anno in cui avrei dovuto in qualche modo imparare a gestirla meglio, è l’emozione più forte e riconoscibile che mi trovi a provare. L’impossibilità – anzi, chiamiamola “difficoltà”: il lockdown era un’altra cosa – di un incontro, di un contatto, di un innamoramento, della semplice serendipità, mi fa finire spesso in un cul-de-sac dove l’unica dimensione praticabile per la felicità sembra quella del ricordo: il presente è un oggetto di un bianco indefinito, freddo al tatto, e così mi sento io in certe sere solitarie in cui non riesco a funzionare e m’infilo sotto le coperte prima delle dieci sperando che il sonno arrivi in fretta.

Tant’è che, quando mi è capitato per le mani il nuovo album degli amati Godspeed You! Black Emperor, il primo pensiero non è andato alla qualità del materiale inedito di una delle mie band favorite, quanto piuttosto a certi momenti life-changing cui per me il collettivo canadese sarà per sempre associato: momenti di condivisione, di vicinanza agli altri, di corpi sfiorati in piena, euforica trance. Hanno quell’umore e quel colore i ricordi dei loro live al Primavera Sound 2014 – ancora inavvicinabile – o a Bologna e Padova negli anni successivi; è così che mi dipingo nella memoria la mia ultima volta a Barcellona, nel 2019.

Efrim Manuel Menuck, che dei Godspeed può essere definito il bandleader, suonava al piano interrato della Sala Apolo, in un contesto decisamente poco consono al suo aspetto burbero e ai suoi modi schivi – nemmeno quel pubblico giovane e hip, a dire la verità, gli somigliava molto. Portava in giro la drone movimentista del progetto SING SINCK, SING, condiviso con Kevin Doria: suoni incerti e ronzanti eppure accessibili, come qualcuno che canti una bella melodia mentre stia pian piano ritrovando l’udito dopo l’esplosione di una granata troppo vicina. Pure belli, se uno è dell’umore; e io lo ero.

Mi muovevo al suono della musica, occhi chiusi e braccia lungo i fianchi, completamente avvolto dall’impasto di noise elettronico in cui la più impercettibile variazione nel posizionamento dei cavi della strumentazione e ogni minima interferenza avevano su di me il potere di un effetto farfalla. C’era una ragazza, proprio lì accanto, che si muoveva esattamente come me – lentamente, in circolo, rapita; non la guardavo, ma la sentivo muoversi in sincrono, e iniziai a fantasticare su quell’incredibile senso di connessione a un altro essere umano e sul brivido elettrico che provavo sulla pelle al solo percepirla vicina.

Finito il concerto, si riaccesero le luci: pensai di parlarle, ma avevo la gola secca e scelsi di allontanarmi piano, salendo le scale del locale per poi uscire nella notte fresca e staccarmi da quell’emozione – l’idea di aver avuto tenuto il mondo fra le mani per un istante e poi basta – in un modo tollerabile. Ritorno spesso a quell’istante, quando ascolto i Godspeed You! Black Emperor: il suono enorme dei loro brani – qualcosa che descrive come un documentario il collasso della civiltà senza mai negarsi la possibilità di sognare ancora – è lo stesso di quel desiderio che ogni giorno mi sveglio sperando di nuovo di vivere; quelle terremotanti rivoluzioni soniche, una questione privata.

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L’anno prossimo, il primo album dei GY!BE compirà un quarto di secolo. Usciva nel 1997, F♯ A♯ ∞, e impressiona ancora oggi: sembra impossibile che una band di venticinquenni o poco più all’esordio sia stata capace di creare un sound così personale, al tempo stesso frammentato e coerente, sparso e d’insieme. Ai tre membri fondatori – Efrim Manuel Menuck (chitarra), Mike Moya (chitarra) e Mauro Pezzente (basso) – si affiancavano infatti numerosi altri strumentisti: Aidan Girt (batteria), David Bryant (chitarra), Thierry Amar (basso), Thea Pratt (corno), Christophe (violino), Norsola Johnson (violoncello), Bruce Cawdron (percussioni).

Non si era mai sentita musica del genere, prima, e non si è mai più sentita dopo. Chiaro: i Godspeed facevano e fanno parte a pieno titolo del filone post-rock, un genere di musica in quegli anni al proprio acme che, pur sfruttando gli strumenti classici del rock, mirava a superarne le ristrettezze formali – generando nel processo album diversissimi e diversamente formidabili come Spirit Of Eden e Laughing Stock dei Talk Talk, Spiderland degli Slint, Hex dei Bark Psychosis, Millions Now Living Will Never Die e TNT dei Tortoise, Young Team dei Mogwai. Ma questa orchestra era da subito una cosa altra, inafferrabile.

F♯ A♯ ∞ è gioia sperimentale in continuo mutamento. La prima edizione in CD pubblicata da Kranky nel 1998 presenta 25’ di musica in più rispetto a quella dell’anno precedente, e pure i movimenti dei brani sono sequenziati diversamente; la versione definitiva comprende tre tracce, ognuna organizzata in sottosezioni che poi la band riprenderà in concerto singolarmente. I tratti distintivi dei Godspeed You! Black Emperor sono già tutti qui: melodiosi crescendo di arpeggi, assordanti muri di elettricità; drone rumorista, disturbi radio e voci captate da chissà dove a raccontare di un’Apocalisse prossima ventura – saranno proprio le note di East Hastings ad aprire gli occhi di Cillian Murphy sulla Londra deserta di 28 Giorni Dopo, catastrofe sci-fi a firma Danny Boyle.

Il successore viene pubblicato nel 2000, ed è il doppio per cui questa band – dovendosi limitare alla scelta di un titolo da una discografia di qualità media elevatissima – finirà nei libri di storia. Iconico fin dalla copertina, Lift Your Skinny Fists Like Antennas To Heaven propone un’ora e mezza di musica alternativamente minimale e maestosa, malinconica nei pianissimo e furia cieca nei fortissimo, che lima le asperità più taglienti dell’esordio per concentrarsi su forme più rotonde. Sono quattro suite indimenticabili, ma certo è che l’opener Storm è un concentrato di meraviglia – a parte l’attacco, magico, basterebbero a farne leggenda i quattro minuti finali: un pianoforte che balugina nel mezzo di una tempesta di interferenze, piccolo e fiero nonostante il mondo in rovina tutto intorno.

Scrivere musica strumentale dagli inequivocabili intenti politici – anarchici, anticapitalisti, antimilitaristi – è sempre stato il trademark dei Godspeed You! Black Emperor, in questo senso raramente più espliciti che nel terzo, fluviale Yanqui U.X.O.. Bombe nel titolo e in copertina, j’accuse tanto nel booklet quanto nei brani – l’apertura 09-15-00 prende come riferimento temporale (errato) la data d’inizio della seconda intifada palestinese, con la visita di Ariel Sharon al Monte del Tempio. Non si nota il benché minimo cedimento alle sirene del mercato, ma è certo che questo lavoro non mostra grandi evoluzioni nel suono complessivo – più granitico ma pure meno poetico, meno fantasioso.

Ci vorranno dieci anni prima che la band si ritrovi e decida di dargli un seguito, forse consapevole della stasi. Da quel nuovo inizio verrà un trittico di album decisamente più concisi, lirismo elettrificato capace di parlare al cuore di un decennio avvolto nelle tenebre.

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Gli album dei Godspeed You! Black Emperor
Quattro copertine dalla discografia dei Godspeed You! Black Emperor, dagli inizi a oggi

Accompagnato dal consueto dispaccio agit-prop, il 2 aprile è arrivato G_d’s Pee AT STATE’S END! – quel che non è cambiato in tre decenni di Godspeed You! Black Emperor è anche l’assoluto disinteresse per qualunque tipo di autopromozione. Sembrano uscire dal catalogo NERO, quelle parole sulla fine, sulla sua attesa e inevitabilità, dai ragionamenti di Mark Fisher, di Bifo o di James Bridle. E a leggerle, se uno conosce il passato del collettivo, pare già di ascoltarlo, questo album: G_d’s Pee è nato come sempre on the road – qualche anteprima, ricordo, si era sentita durante il tour di fine 2019 – ed è stato registrato l’autunno scorso, nel pieno di una terrorizzante seconda ondata pandemica; dopo anni, la band ha ripreso in mano le radio a onde corte solo per scoprire che le voci che una volta preconizzavano la catastrofe ora urlano “end times now”.

Fa buio pesto, intorno a questi musicisti che suonano in cerchio cercando nell’interazione e nel dialogo strumentale un senso per il futuro, spaventati da quello che il presente riserva – armi e guerre, surveillance capitalism e forme di governo violente subdolamente mascherate da democrazie. Dicono di aspettare la fine, dicono di aspettare un inizio: G_d’s Pee è disperato e cupo, ma anche rabbioso e proattivo; forse come mai in precedenza, consapevole del fatto che, per dirne una, per ogni ghiacciaio che muore c’è chi si organizza per cambiare la percezione di milioni di persone riguardo alla crisi climatica. È tutto scritto: “in questi tempi di morte, la nostra parte deve vincere”.

Appropriatamente, dunque, queste quattro composizioni – numero standard per ogni uscita della band – rilucono di una bellezza estatica, esaltata dalla produzione policroma di Jace Lasek dei Besnard Lakes. Strutturalmente siamo nei paraggi del comeback Allelujah! Don’t Bend! Ascend! del 2012: due tracce da venti minuti ciascuna e altre due più brevi, a mo’ di interludi non secondari; a livello di efficacia melodica delle parti, invece, l’altro riferimento utile è l’EP Slow Riot For New Zero Kanada del 1999, scrigno che racchiude l’imprendibile volteggiare orchestrale di Moya. Spariscono quasi del tutto le pesantezze stoner e drone che nel 2015 avevano finito per rendere Asunder, Sweet And Other Distress una versione sabbathiana dei GY!BE.

Per una volta, vale forse la pena partire da quei due brani che si sarebbe tentati di skippare. Perché Fire At Static Valley e Our Side Has To Win – dodici minuti in tutto – fungono da perfetti tone-setter per l’album, oltre a mostrare lo stato dell’ispirazione di Menuck e compagni: una offre uno spettrale arpeggio di chitarra che in un addensarsi di nubi e scale di grigio annuncia l’ingresso dei bordoni, di un violino struggente (Sophie Trudeau, anche all’organo), di un tamburo minaccioso (Timothy Herzog, oltre al solito Girt); l’altra è canto unisono dei cordofoni per una nuova alba, sinfonia di rifrazioni che conferisce a G_d’s Pee un tono di speranza inedito per la chiusa di un lavoro dei Godspeed. Basterebbe questo a farne un’opera significativa, fosse anche solo per questo aprile nato sfinito: ma ci sono pure le suite, e sono viste che tolgono il fiato. Cominciamo dalla prima.

C’è un disturbo radio, all’inizio, ed era tanto che non si ascoltava: ci vogliono due minuti prima che il canale si sintonizzi su una sorta di epica alla Sunn O))) depotenziata per una sola chitarra, mentre gli archi cominciano a sfregarsi di gusto. Il movimento successivo, Job’s Lament, cresce piano, fino a quando un palm mute innesca un raga al rallentatore – nota: davvero splendido il riff che erompe dagli amplificatori intorno all’undicesimo minuto, quasi fosse la composizione stessa a chiederlo. Il passaggio a First Of The Last Glaciers arriva a un passo dal punto di rottura: da quella vetta non si può che scendere, in una planata di armonizzazioni seventies che si spengono nel silenzio di where we break how we shine (ROCKETS FOR MARY) – colpi d’arma da fuoco che echeggiano in una valle in cui gli unici altri suoni sono di una natura desolata.

Anche il secondo dei due longform si attarda a cercare le frequenze giuste – e come per la precedente, anche qui vengono indicate nel titolo: 9980.0kHz, 3617.1kHz, 4521.0 kHz.
GOVERNMENT CAME è un giro di basso funereo e doom su cui s’appoggiano una chitarra lacerante, archi spezzacuore e una batteria impro; la lenta processione che segue è fatta d’aria e terra: la ritmica ancora al suolo i voli degli altri strumenti, che occupano la volta celeste dello spettro – non è una bestemmia immaginare quegli alti come l’urlo di mille uccelli cui Patti Smith accostava la sei-corde di Tom Verlaine. È tempo di fermare tutto: l’ipnosi Cliffs Gaze è un countdown per il lancio nella stratosfera degli ultimi minuti, battiti-per-minuto da tripudio rock classico come raramente avevamo sentito dai Godspeed – a memoria, solo nel finale di We Drift Like Worried Fire. Poi resta solo la Our Side Has To Win di cui abbiamo detto poco fa, un modo per riportare tutto a casa fra le macerie.

G_d’s Pee AT STATE’S END! – come qualunque altro album, oggi – è un oggetto culturale di un altro tempo, ma in cinquantadue minuti privi di parole sa raccontare un sentire collettivo attualissimo: il suo suono è l’angoscia che alberga nei cuori dei personaggi che si muovono nelle stanze scure e claustrofobiche della casa di Sacrificio di Andrej Tarkovskij, mentre fuori infuria una terza guerra mondiale che non si vede mai. Eppure, l’esperienza d’ascolto si rivela anche una catarsi che fa rifiorire in un nuovo desiderio: prendere possesso del proprio tempo per potersi inventare di nuovo il futuro. Non riesco a immaginare dono più bello, qui e ora.

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Autore: Godspeed You! Black Emperor
Titolo: G_d’s Pee AT STATE’S END!
Etichetta: Constellation
Durata: 52’
Anno: 2021

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