Gli arancini di Montalbano
Anche quest’anno ce l’abbiamo fatta. Ora che l’odore del fritto natalizio ha smesso di perseguitarci come un fantasma untuoso, svolazziamo gai tra un buon proposito e l’altro. Con spensierata noncuranza riempiamo le agende di bestemmie come spinning-running-training e senza vergogna pronunciamo ad alta voce robe del tipo “tisana drenante”. Ma si sa, presto rinsaviremo: il ricordo degli avanzi svanirà come anche la voglia di andare al corso di zumba, e alle insalate di finocchio torneremo a preferire le parmigiane di melanzane. Perciò, è proprio questo il momento migliore per rivangare un trauma recente, tanto angosciante da farci accelerare sul tapis-roulant: il Capodanno.
Tra uno scaramantico slip rosso e una quintalata di lenticchie, arriva il count-down di fine anno e la risposta all’interrogativo esistenziale “COSAFAIACAPODANNO?” si palesa inesorabile. Ormai è più di un cliché, è una leggenda nera. E nessuno ne è immune. Nemmeno i personaggi letterari, nemmeno i più fighi tra loro. Soprattutto se la loro esistenza è in balia della penna di uno scrittore ironico fino al sadismo, com’è Andrea Camilleri.
Ne “Gli arancini di Montalbano”, racconto (non a caso) conclusivo della raccolta a cui dà il nome, il commissario di Vigàta si trova proprio in una di quelle spiacevoli situazioni tipiche a Capodanno più del cotechino. Dopo una delle solite “azzuffatine” con la fidanzata, Montalbano si ritrova vittima di una “litania, o novena, o quello che era” d’inviti a cena. Che si tratti di “una rumorosa casa di amici o di un anonimo e pretenzioso ristorante rimbombante di voci, risate e musica a tutto volume”, poco importa: la verità è che al commissario piace mangiare solo.
“Una volta, ricordò, aveva letto un racconto, di un italiano certamente, ma il nome non se lo ricordava, dove si contava di un paìsi nel quale era considerato atto contro il comune senso del pudore il mangiare in pubblico. Fare invece quella cosa in prisenza di tutti, no, era un atto normalissimo, consentito. In fondo in fondo si era venuto a trovare d’accordo.”
Ecco. Che non si parli di convivialità e fissarìe varie. La tradizione siciliana non sta nello stereotipo delle tavole imbandite, nonsi. Il gusto è il senso più intimo, sacro, e in quanto tale va praticato in solitudine e silenzio, come nelle chiese. O nelle camere da letto.
Per fortuna, a difendere dalla profanazione la buona cucina ci sono per Montalbano due vestali mica da poco, Calogero e Adelina. Il primo, “proprietario, coco e cammarere” del ristorante omonimo, unica isola felice dove consumare il rito del pasto fuori casa; l’altra, fedele perpetua del commissario, di poche parole molto sgrammaticate, la cui unica pecca è l’avere due figli delinquenti. E infatti proprio a causa di uno di loro per l’ennesima volta nei guai, l’unica speranza che Montalbano aveva di godersi il cenone di Capodanno rischia di spegnersi: Adelina, per la “felice combinazione, rara come la comparsa della cometa di Halley, che si trovassero tutti e due (i figli) contemporaneamente in libertà”, avrebbe preparato gli arancini. E Montalbano per quelli è disposto a fare qualsiasi cosa, pure risolvere un altro caso.
Sì, perché i mitici arancini di Adelina non sono solo buoni, sono parte del “patrimonio genetico” del commissario. Tant’è che Camilleri si premura perfino di darcene la ricetta, a differenza delle tante altre occasioni in cui Montalbano si rincuora davanti a triglie fritte, pasta ‘ncasciata e attuppateddri. L’arancino racchiude sotto la sua crosticina dorata tutto quello che nel tempo ha fatto “siciliana la Sicilia”. Arabi e normanni, sfarzo e fame, tutto impastato e chiuso in un pugno di riso. E pure Camilleri con la scrittura, in fin dei conti, fa un po’ come Adelina ai fornelli: mischia il linguaggio contadino a quello borghese, la mafia con la legge, il sacro col profano, e da maestro buongustaio quale è ne tira fuori una piccola prelibatezza.
È chiaro che un simile manicaretto val bene un’indagine, pure se è la notte di fine anno. E allora Montalbano si fa tornare “la gana di travagliare” e mette in moto “un’idea che forse avrebbe salvato la mangiata d’arancini”. Del resto, se a tavola la necessità è saziarsi, il piacere sta nel congedarsi con la bocca buona. Esattamente come dietro alla scrivania del commissariato il modo di operare per raggiungere la verità soddisfa più della verità stessa. Questo “viene a significare” che a Montalbano piace che le cose siano fatte come u Signuruzzu comanda. E così la pensa pure Camilleri.
Un giallo di tutto rispetto deve far gioco sull’appetito del lettore stuzzicandolo di continuo. La curiosità stimola la fame e a ogni nuovo indizio il profumino aumenta, segno che ci stiamo avvicinando alla soluzione. Camilleri, poi, non è mai tirchio di condimenti e se la spassa a far venire l’acquolina a noi e a Montalbano, ma alla fine non ci tradisce mai: la sua scrittura segue una vera e propria “etica del gusto”, non c’è rischio di restare a bocca asciutta. Infatti, anche in questo racconto, nel giro di un paio di pagine giustizia è fatta. E la goduria degli arancini di Montalbano è assicurata.
Gli arancini di Adelina, secondo l’arte del Maestro:
“Il giorno avanti si fa un aggrassato di vitellone e di maiale in parti uguali che deve còciri a foco lentissimo per ore e ore con cipolla, pummadoro, sedano, prezzemolo e basilico. Il giorno appresso si pripara un risotto, quello che chiamano alla milanìsa (senza zaffirano, pi carità!), lo si versa sopra a una tavola, ci si impastano le ova e lo si fa rifriddàre. Intanto si còcino i pisellini, si fa una besciamella, si riducono a pezzettini ‘na poco di fette di salame e si fa tutta una composta con la carne aggrassata, triturata a mano con la mezzaluna (nenti frullatore, pi carità di Dio!). Il suco della carne s’ammisca col risotto. A questo punto si piglia tanticchia di risotto, s’assistema nel palmo d’una mano fatta a conca, ci si mette dentro quanto un cucchiaio di composta e si copre con dell’altro riso a formare una bella palla. Ogni palla la si fa rotoloare nella farina, poi si passa nel bianco d’ovo e nel pane grattato. Doppo, tutti gli arancini s’infilano in una padeddra d’oglio bollente e si fanno friggere fino a quando pigliano un colore d’oro vecchio. Si lasciano scolare sulla carta. E alla fine, ringraziando u Signuruzzu, si mangiano!”
Gli arancini secondo me, che non mi permetterei mai di contraddire il Maestro però ognuno ha i suoi gusti e poi anche così spaccano:
Ingredienti per il risotto:
riso (che la comunità lombarda mi perdoni) tipo parboiled 500 gr
zafferano
vino bianco q.b.
brodo vegetale q.b.
olio e burro q.b.
mezza cipolla
parmigiano grattuggiato q.b.
sale q.b.
Per il ripieno:
carne da ragù mista (vari tagli grassi di maiale e manzo) 250gr circa
piselli 70 gr
passata di pomodoro 1litro e mezzo
concentrato di pomodoro tre cucchiai
scamorza fresca 70 gr
besciamella (farina, burro, latte, sale)
vino bianco q.b.
sale e pepe q.b.
olio evo q.b.
Per la panatura e la frittura:
uova n.3
pangrattato q.b.
sale q.b.
olio di semi
Ok picciotti, calma e sangue freddo. Anche se la Sicilia l’avete vista solo su Google Maps, ve la caverete egregiamente. Anche perché tra ragù, risotto e besciamella il pedigree dell’arancino è bello global.
Per prima cosa bisogna fare un ragù simile a quello napoletano, “come u Signuruzzu comanda”. Ingaggiate un paio di nonnette gagliarde e sfruttate la laurea in ingegneria gestionale mettendo su un piano di turni militari, perché il ragù richiede molto, molto tempo e altrettanta attenzione. Fate rosolare la carne con l’olio, sfumate col vino, aggiungete la passata e il concentrato di pomodoro, salate e iniziate a girare. Il sugo non deve bollire mai, ma deve ininterrottamente pippiare (tecnicismo terrone di origine onomatopeica, a indicare il rumore delle bolle della salsa, simile alla lava incandescente) senza attaccarsi al fondo. Sarete liberi di uscire dalla cucina solo quando la carne si sarà del tutto consumata, allora il sugo sarà piuttosto scuro. E a voi sarà venuto il gomito del tennista.
Se sarete sopravvissuti, potrete passare al risotto (metodo classico, ma l’importante è lasciarlo al dente). Con questo il grosso è fatto. Ma non gongolate, è troppo presto per sentirsi l’Adelina de no’ antri. Mentre lasciate il risotto a raffreddare, lessate i piselli, preparate una besciamella piuttosto densa e tagliate il formaggio a dadini. A questo punto, scaldate le mani…arriva il bello!
Prendete un pugnetto di riso (tenete le mani sempre bagnate sennò si attacca ovunque e non è una cosa simpatica, ve lo assicuro) e fate una piccola pallina. Metteteci al centro, dove avrete fatto una conchetta, una minima quantità di ragù, piselli, scamorza e besciamella. Con un altro po’ di risotto chiudete per bene la pallina e rotolatevela ancora tra le mani per darle la forma. Finito questo lavoretto delicato, avrete la cucina invasa da una piccola serie di palle da tennis commestibili. Passatele una ad una nell’uovo sbattuto e poi nel pangrattato, se necessario anche due volte. Non siate tirchi. Dulcis in fundo, friggete i vostri piccoli capolavori nell’olio bollente e non commettete l’errore di Adelina che, povera donna, invita gente a cena. No. Godeteveli in solitudine, come farebbe Montalbano, ché gli arancini home made hanno il sapore della conquista.