Give Me 5 (XL Recordings Edition) | Vol. 120
Non lo direste mai, ma pure a Cremona c’è un piccolo angolo di paradiso che ogni appassionato di musica dovrebbe conoscere: si chiama Disc Jockey 70 e sta nascosto in una vietta proprio vicino a piazza Roma. Quando entri lì dentro, c’è sempre un sorriso pronto ad accoglierti e a raccontarti un sacco di cose sulla musica importante di ieri e oggi; soprattutto, c’è un casino – da intendersi in diversi sensi – di nuove uscite in cd e vinile, tutte poggiate sul bancone, in cui è meraviglioso scartabellare, perdersi. Sabato – mentre appunto mi perdevo – andava in sottofondo musica che non poteva lasciare indifferenti: un doppio di afro-jazz cosmico che ho scoperto essere Wisdom of Elders di Shabaka And The Ancestors (e che stupidamente mi son fatto scappare) e soprattutto Everything Is Recorded, il progetto di Richard Russell che ancora non avevo fatto mio (e a questo errore ho subito rimediato).
Richard Russell, a farla breve, è un eroe, un nome così importante che, anche se non vi dice nulla, ha sicuramente a che fare con almeno un album che avete a casa. Sua infatti è la fenomenale XL Recordings, fondata nel 1989, che negli anni ha pubblicato robetta come Music For The Jilted Generation e The Fat Of The Land dei Prodigy, Elephant dei White Stripes, i Vampire Weekend e M.I.A., i lavori dei Radiohead da In Rainbows in poi, l’ultimo meraviglioso album di Gil Scott-Heron e tutti quelli di Adele. In più, attualmente ha sotto contratto gente come Frank Ocean, King Krule e le Ibeyi e una sua costola, la Young Turks, diffonde la musica di Kamasi Washington, FKA Twigs, XX e Sampha. Se non è essere centrali questo, davvero non so cosa lo sia.
Everything Is Recorded è per la XL quello che This Mortal Coil era stato per la 4AD: un’idea progettuale che mette insieme artisti che hanno trovato casa presso una sola etichetta discografica, per tirarne fuori dodici tracce di pop contemporaneo di qualità sopraffina. Andate a sentirvelo e godetevi questa pazzesca successione di tracce, che non sono mai semplici feat. nonostante lo star power in campo facesse temere il contrario (oltre a tanti dei nomi che abbiamo detto, ci trovate anche Peter Gabriel e Owen Pallett): garantito che sarà uno dei dischi dell’anno. Nel frattempo, ci ripassiamo cinque canzoni bellissime che negli ultimi anni Richard Russell ci ha permesso di ascoltare.
Jamie xx | Gosh
Dell’esordio solista di Jamie Smith – a.k.a. Jamie XX – ho questo ricordo bellissimo, incredibilmente nineties: una notte d’estate del 2015 passata a guidare dal mare a casa, l’aria fresca che entrava dal finestrino e i cugini ventenni addormentati sui sedili al mio fianco. Sullo stereo girava In Colour, uno degli album più estivi che mi sia capitato di ascoltare in questi anni – mi è sempre sembrato lo Screamadelica del nostro decennio, in questo senso – e un suono intriso di euforia e malinconia insieme. Gosh sta al primo posto della scaletta, opener perfetta costruita su bassi profondi, un piccolo sample vocale e tastiere sparate nella stratosfera (parole rubate a Pitchfork, lo ammetto): una cosa che a me è sempre parsa una celebrazione della giovinezza, dello stare insieme, dell’era dei rave. Una meraviglia di traccia, che sa scintillare nel buio di una notte elettrica.
The Avalanches | Because I’m Me
L’uscita di Wildflower ha coinciso per me con un momento di passaggio un po’ complicato, la fine di una relazione e di una convivenza. Il suono pieno, pastoso, sampladelico e groove-oriented del nuovo album degli australiani Avalanches è quello che ha accompagnato la speranza colorata con cui ho aperto per la prima volta il finestrone del mio nuovo monolocale bolognese, facendo entrare aria e luce in uno spazio che da piccolo si è subito fatto ampio e accogliente (bella metafora, a pensarci).
A sedici anni dal primo disco, l’epocale Since I Left You, è arrivata un’altra mastodontica raccolta di musica-fatta-di-altra-musica, in cui i sample hanno l’effetto stordente (voluto) di un viaggio sotto LSD dalla città all’oceano – non è un caso che la copertina citi There’s a Riot Goin’ On come riferimento grafico e controculturale. Because I’m Me è un piccolo manifesto di tutto questo: gioiosa, solare, tutta da ballare, con i pezzi di canzoni altrui che non nascondono e anzi esaltano il valore intrinseco della composizione di Robbie Chater e Tony Di Blasi.
Ibeyi | River
Per un periodo – diciamo la seconda metà degli anni Zero – ho rischiato di tramutarmi in uno di quei giovani vecchi che si abbandonano volentieri a discorsi da bar sul tema “la musica di una volta era meglio”. Ho smesso in fretta quei panni: primo, perché semplicemente non è vero; secondo, perché quel tipo di nostalgia è una di quelle cose di cui i miei eroi hardcore anni ottanta e novanta (Bob Mould, Mike Watt, Ian MacKaye) avrebbero riso, qualcosa che avrebbe impedito loro di riscrivere le regole della musica indipendente nei loro anni giovani.
È per questo che quando arrivano artiste come le Ibeyi, oggi, le accolgo con rispetto e gioia: perché la musica delle gemelle franco-cubane Lisa-Kaindé e Naomi Diaz – nate il 13 dicembre 1994 – è pura, ispirata, eccitante e politica (soprattutto nell’ultimo Ash), qualcosa che sembra avere la forza di spostare almeno un poco l’idea di quello che potrebbe essere la musica pop. River è il loro primo singolo e anche la loro canzone più famosa, un’ipnosi di voci intrecciate e piene di soul: non solo nel senso del genere musicale, ma proprio per la capacità di gestire un racconto di emozioni così complesse a soli 20 anni.
King Krule | Dum Surfer
Che bomba, The OOZ. L’ho ascoltato tardi, sul finire del 2017, e ci ha messo un po’ ad arrivarmi; ma quando l’ha fatto, mi ha travolto come un treno. Archy Marshall – King Krule, appunto – è uno di quei talenti one-in-a-million che a 23 anni ha già una visione così piena della propria arte da far spavento, abbastanza sbruffone e geniale da pubblicare un’opera mondo da diciannove brani e sessantasei minuti con dentro buonissime vibrazioni jazz, darkwave, punk, hip hop.
Dum Surfer è chiaramente uno dei pezzi migliori di un album in cui i picchi non si contano sulle dita di una sola mano: scura come quelle cose trip-hop che arrivavano da Bristol nei primi anni novanta, ricca di suoni diversi e distanti come si addice alla musica dei nostri anni – bellissimo l’incastro tra il rimbombare metallico della ritmica e i toni alti delle chitarre, l’accento pesantissimo di Marshall e il sax fumoso di Ignacio Salvadores. Musica di oggi che per una volta suona come quella di domani, piuttosto che come quella di ieri.
Step | Vampire Weekend
Se questa selezione ha il profumo di un viaggio dal tramonto all’alba, Step dei Vampire Weekend è la scelta perfetta per accogliere un nuovo giorno. A qualcuno potrà pure sembrare musica per fighetti newyorkesi, ma i tre album di Ezra Koenig e dei suoi vampiri sono tutti splendidi esempi di pop barocco contaminato dai suoni del mondo. Certo: loro, a differenza del Paul Simon di Graceland, l’Africa l’avranno probabilmente vista solo su Internet o sulle mappe alle pareti delle loro aule di college, ma questo non inficia la qualità di una proposta musicale importante.
Il loro terzo – e per ora ultimo – disco, Modern Vampire Of The Cities, sembra il più rilassato e maturo; di certo il più emozionante e complesso, come dimostra Step, piccolo trattato sul concetto di nostalgia che ripesca la melodia di Step To Your Girl di Souls of Mischief. Emozionante, dicevamo: un aggettivo che pare ridicolo oggi – chi ha il tempo di stare a pensare a cosa sia davvero emozionante, quando tutto si può rivedere in senso meta e ironico – ma se vi lasciate trasportare dal ritmo dolce di Step, le parole di Koenig vi diranno che ha ancora senso cercare un ideale di purezza giovane, anche rovistando nel passato. Perché “wisdom’s a gift but you’d trade it for youth”.