GiveMe5 (Us Soundtrack Edition) | Vol. 152
“Lo spettro dell’immaginario evocato dal film è enorme, a quattro dimensioni: esplora in profondità un mondo sotterraneo letterale che offre un’incarnazione fisica al concetto allucinatorio del “luogo sommerso” di “Get Out”. E coglie il potere trasformativo e radicale di una coscienza politica, di un’idea a lungo tenuta in segreto, mentre matura e si sviluppa per decenni di tempo. “Noi” non è nulla di meno che un risultato colossale” (da un articolo del NewYorker, questo)
Lo so, lo so. Di Us avete già letto, qui su SALT, in un ottimo articolo di Alessandro – a proposito, questo è il mio regalo di compleanno per te: auguri, amico – ma l’occasione di un film così significativo e in cui il ruolo della musica è così centrale era troppo ghiotta per non provare a riprendere le fila del discorso anche in un’ottica Sound.
D’altra parte, è di questo che è fatto il grande Cinema: non già e non solo una serie di battute scene fulminanti e istantaneamente memorabili (o meglio, memabili), ma una visione d’insieme – parole, suoni, immagini, un’idea del mondo – che ritorni alla mente anche a distanza di tempo dalla prima visione, un piccolo tarlo che si scavi una tana nella testa e da lì inizi a tormentare i pensieri.
Quest’anno l’hanno fatto solo tre film, finora: Border, meglio di tutti e potenzialmente già un classico; Oro Verde, versione intelligente, spirituale e finalmente non pulp-macho-noir delle tematiche alla base di Narcos; l’horror sociale di Jordan Peele, appropriatamente politico già da un titolo che dice di “noi” (Us), ma pure degli Stati Uniti (US).
Di metafore abbiamo già detto, d’accordo, ed è complicatissimo non spoilerare dettagli chiave del film, ma vale proprio la pena ribadire quanto sia forte mostrare in questo modo come gli Stati Uniti siano basati sulla completa rimozione di un passato di pura violenza, rappresentato da doppelganger-ombra rinchiusi nei sotterranei di una nazione che prova a fingere di non ricordare da dove arrivino benessere e ricchezza.
Non è tutto lì, ovviamente. Ci sono anche i rapporti sociali, ad esempio, perennemente cristallizzati pure nelle nostre società democratiche e così apparentemente livellate e scalabili (leggetevi questo pezzo su Instagram); c’è la spersonalizzazione, il fatto che in fondo siamo corpi svuotabili e rimpiazzabili (e questa l’ho rubata ad Andrea, con cui mi sdebito suggerendovi di seguirlo qui). E c’è lo spettro di un’intera colonna sonora che si agita in Us e che non fa che sottolineare questi concetti, sottile e implacabile: per voi abbiamo scelto cinque pezzi.
Anthem | Michael Abels
“Il motivo per cui il testo di Anthem non ha senso ha a che fare con l’intero Us: vogliamo comunicare il messaggio che c’è un gruppo di persone che si sta organizzando, ma non vogliamo che il pubblico capisca il loro scopo. Vogliamo che il pubblico lo scopra in seguito, insieme ai personaggi principali. I testi migliori di qualsiasi canzone che ami non sono quelli ovvi: sono quelli poetici, aperti all’interpretazione. Sei costretto ad ascoltare le tue emozioni e i tuoi istinti piuttosto che il tuo intelletto” (da un’intervista a Michael Abels su Slate, questa)
Una marcetta malevola, giusto in apertura. È Anthem, filastrocca nonsense – un’idea figlia di Lewis Carroll e del Dr. Seuss – sillabata da voci infantili che istantaneamente propone un mostruoso senso di minaccia, perfino in un’inquadratura che comprende un numero sempre crescente di conigli in gabbia: ogni dettaglio in Us serve a costruire una tensione che troverà il proprio climax più avanti.
Janelle Monae | I Like That
I don’t care what I look like, but I feel good
better than amazing, and better than I could
told the whole world, I’m the venom and the antidote
take a different type of girl to keep the whole world afloat
Una delle chiavi di lettura meta del film ci dice che l’America è capace di trasformare ogni cosa – compresa la propria storia di sangue – in puro intrattenimento; ma il finale sembra pure un modo per dire che ci sono certi “ingranaggi impazziti” che sfuggono al controllo del sistema: è come se Peele volesse dirci che questo tipo di cinema sia una sorta di “sacrificio necessario” per una sollevazione delle coscienze. Ed è dunque quasi inevitabile l’inclusione nella soundtrack di Janelle Monae, artista che strapazza forme pop per adeguarle alla propria visione sociopolitica: lei stessa è uno di quegli ingranaggi che fanno la differenza.
Fuck Tha Police | N.W.A.
“Te la spiego in breve. Sono al mondo da 30 anni e ci sono state così tante cose che una persona bianca mi ha detto che non avrei potuto fare. Avere un finanziamento. Comprare casa in città. Un sacco di cose. Quindi se io dico che questa parola, questo termine è mio. Una parola, fatemi avere una parola” (da un’intervista di Kendrick Lamar a Rolling Stone, questa)
Questa canzone e la successiva Good Vibrations fanno parte della colonna sonora diegetica della scena più cruenta del film, oltre che la più inaspettata: impiega dieci secondi per imprimere una svolta radicale al tono dell’opera.
Nella casa degli amici della famiglia protagonista si consumano delitti di spaventosa violenza e ad accompagnarli c’è musica che suona ironica – Fuck Tha Police quando ci sarebbe appunto da chiamarle, le forze dell’ordine? – ma che dice anche altro. Ad esempio, questo classico dei N.W.A. è un tipico esempio di appropriazione culturale da parte di bianchi che riducono a tappezzeria sonora l’urlo di rabbia che prorompe dai solchi degli album black. Lasciatemi qualcosa, almeno una parola, diceva Kendrick Lamar a Rolling Stone, parlando dello scontro con una fan bianca che sul palco con lui aveva osato la n-word.
Good Vibrations | Beach Boys
close my eyes, she’s somehow closer now
softly smile, I know she must be kind
when I look in her eyes
she goes with me to a blossom world
Un’affermazione un po’ forte: Pet Sounds è il più grande album pop del Novecento, e nemmeno uno dei dischi dei Beatles può eguagliare quello che Brian Wilson fu capace di fare con quel solo capolavoro, nel 1966; non è un caso che Paul McCartney ne abbia regalata una copia a ciascuno dei suoi figli, per abituarli fin da piccoli alla bellezza.
Ma la parabola artistica di Wilson – che, prima del tracollo psicofisico, culmina proprio con la rivoluzione della struttura della canzone pop contenuta in quest’ode alle buone vibrazioni, uscita come singolo subito dopo quell’album irripetibile – è anche un esempio di come il Sogno Americano mastichi i propri figli migliori e li risputi sottoforma di prodotto completamente ripulito e per-tutta-la-famiglia, nascondendone i lati oscuri. Provate ad ascoltare Tonight’s The Night di Neil Young, se volete vedere l’effetto di tutto questo senza infingimenti.
Les Fleurs | Minnie Riperton
“Un grande Easter Egg è la canzone funk alla fine, “Les Fleurs” di Minnie Riperton. All’inizio del film, vediamo l’annuncio per Hands Across America. L’annuncio è in realtà falso, e Jordan mi ha fatto fare una versione anni ottanta sdolcinata di “Les Fleurs” da usare per dare realismo allo spot. La canzone vera ritorna alla fine del film, ma devi davvero conoscerla e ascoltarla attentamente per coglierla. Questo è proprio uno scherzo alla Jordan Peele” (ancora dall’intervista a Michael Abels, su Slate)
La voce maestosa di Minnie Riperton esplode nel finale anarchico e surreale di Us in un classico soul del 1970; perfetta per celebrare in modo sensuale e gioioso – una gioia mordace, sarcastica, virulenta – il messaggio di una rivoluzione irreprimibile, che il sistema non può controllare in nessun modo sul lungo periodo. Una suggestione: quella vocalità così debordante mi ha fatto ricordare che solo in quel periodo nella pop music si ascoltavano melodie di quella taglia, e il cinema e la tv se ne sono sempre accorti; pensate solo a una delle scene più importanti della televisione degli anni zero, la prima della seconda stagione di Lost: a sottolinearne la centralità, la strepitante hit Make Your Own Kind Of Music di Mama Cass Elliot. Fuori misura, proprio.