GiveMe5 (Notte Elettronica Edition) | vol.164

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Il cielo di notte
Immagine di FelixMittermeier su Pixabay (https://pixabay.com/it/users/felixmittermeier-4397258/)

Sabato sera sono uscito che iniziava a far buio, aria aperta dopo una giornata passata in casa. C’era un cielo tardo-estivo che aveva appena smesso di gocciolare, e il blu scuro della notte che si faceva strada portava con sé domande su quale fosse la migliore colonna sonora per accompagnarlo.

Per qualche motivo, l’atmosfera mi ha fatto ripensare a quel classico all-encompassing jungle che è Timeless di Goldie, forse per quel senso di sorpresa e attesa che porta con sé una sinfonia di 21 minuti per breakbeats a pioggia, orchestra e vocalità soul.

Dieci anni fa questo non sarebbe successo. Testa, cuore e gambe avrebbero immediatamente suggerito malinconiche chitarre indie-rock, tutt’al più i nuvoloni del Neil Young di See The Sky About To Rain. Però, nel frattempo, ho scoperto di avere un corpo e improvvisamente sono arrivati jazz e funk, groove e dance.

Per questo oggi vi regalo cinque brani elettronici – in senso lato: c’è veramente di tutto, qui dentro – che suonano come se la notte si potesse creare, vivere, respirare.


Caterina Barbieri | Fantas (10:32)

“Sono sempre stata affascinata dalle qualità ipnotiche del suono, del suo potere di alterare, potenziare, riconfigurare le percezioni umane, di tempo e spazio. Mi interessava trasformare la computazione da tecnica formale, da automatismo, in un processo creativo in grado di indurre allucinazioni percettive e in ultimo un senso di estasi, contemplazione, trance” (da un’intervista a Rumore, maggio 2019)

Immaginate la scena. Sono le quattro del pomeriggio, a Barcellona: fuori c’è un sole accecante; dentro l’Auditori Rockdelux, invece, non c’è posto per la luce, ma solo per la sagoma in controluce di Caterina Barbieri, appena visibile dietro a un desk zeppo di cavi e macchinari. Partono le prime note di Fantas e subito spirali circolari di suono inchiodano alle poltroncine un pubblico perso in schermi e chiacchiere fino a pochi istanti prima.

Un’avanguardia elettronica minimale e di concetto, però sempre coinvolgente e accessibile, di travolgente impatto fisico. Le ripetizioni di Ecstatic Computation lasciano l’ascoltatore sospeso in una trance isolazionista, a ondeggiare al ritmo di una musica senza ritmo, in cui sono i pattern di synth sovrapposti a indurre il movimento del corpo.

Immaginate Profondo Rosso e l’indimenticabile colonna sonora dei Goblin; portatela ai nostri tempi e datela in pasto a una AI. Il risultato – per minaccia incombente, tridimensionalità, pure per certi riff – non sarà distante dai dieci minuti di Fantas: orrorifici, notturni, avvolgenti.

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Jamie xx | Gosh (4:51)

Una volta, preso dalla foga del qui e ora, mi sono trovato a definire In Colour di Jamie xx uno Screamadelica per gli anni Dieci. Potrei aver esagerato, dato che quello dei Primal Scream di Bobby Gillespie – ci torneremo fra poco – è uno dei dischi chiave del decennio chiave per l’elettronica da ballo. Però, ogni volta che lo faccio partire, ci vogliono giusto due minuti perché mi convinca di non aver mancato così tanto il bersaglio.

Due minuti, il tempo che Gosh impiega per arrivare a un’incredibile linea di sintetizzatore che cambia completamente il volto del pezzo e lo spara nella stratosfera. Come se a un certo punto – nel buio del club – si accendessero tutte le luci e svelassero una folla pronta a farsi selva di braccia alzate, occhi chiusi, sorrisi estatici. In quell’esatto momento, come Screamadelica, Jamie azzecca l’euforia e il senso di possibilità che la notte sa schiuderti.

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Underworld | Juanita : Kiteless : To Dream Of Love (16:36)

“Più tardi, tornando ai capannoni dell’Essex, gli Underworld parlano di quanto fossero eccitanti i primi anni ’90, quando la loro musica iniziò a spostarsi e il pubblico rock a mescolarsi con la folla dei club. “L’energia era fantastica, l’intera club culture in quel momento era così calda. Per noi era importante poter uscire e sentirci al sicuro. Non era tutto sballato, strafatto di coca, “facciamoci una striscia”: la gente usciva per ballare e divertirsi” (da un’intervista al Guardian, questa)

Ecco, appunto: possibilità infinite. È questa la sensazione che trasmette – direttamente dal cuore pulsante dei Novanta – ogni istante dai primi due album degli Underworld (nella loro seconda incarnazione), nel periodo che va da Dubnobasswithmyheadman alla pubblicazione di Born Slippy come singolo, dopo l’uscita di Trainspotting. Una progressive house che ti dice “la notte è nostra, possiamo tutto”: perfino aprire Second Toughest In The Infants con un brano di sedici minuti e mezzo.

Studio scientifico su tutto quello che puoi montare su una cassa dritta, Juanita : Kiteless : To Dream Of Love aggiunge dettagli ogni otto battute (un hi-hat e un tastierone atmosferico qui, un paio di accordi di chitarra a mezz’aria là), in un senso di cliffhanger permanente che ti lascia affamato per gli sviluppi successivi nonostante la durata infinita. Anche una tensione erotica – la stessa di Cowgirl e altri loro classici – robotizzata e potentissima: il sesso ai tempi della sua riproducibilità tecnica.

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Primal Scream | Swastika Eyes (7:05)

Non poteva mancare qualcosa dei Primal Scream, in una selezione dedicata alla notte. Troppo importante il contributo del progetto di Bobby Gillespie alla causa dell’incontro tra musica rock e cultura dei club per poter essere trascurato. Lavori come Screamadelica, Vanishing Point ed XTRMNTR, anche ascoltati a due decenni di distanza, suonano innovativi, densi, carichi come uno scontro armato.

Ed è esattamente il suono di una protesta violenta di piazza, quello che si respira nei sette minuti di Swastika Eyes.

Pensateci: questo materiale infiammerebbe uno Zack De La Rocha che alle sue spalle non dovesse più trovare quel riccardone di Tom Morello, ma una Bomb Squad in versione hardcore techno. Gli ultimi novanta secondi si aggirano per le casse con sguardo famelico e trasformano la folla in un unico corpo danzante e inferocito.

Jon Hopkins | Everything Connected (10:30)

“Una volta seduto in studio, segui l’istinto. Solo una volta che hai quasi finito sei in grado di guardarti indietro e dire: “Oh, già, ne è venuta fuori una trasposizione piuttosto fedele di quella volta che ho preso la psilocibina,” ma non sapevo che stavo scrivendo proprio quella. All’inizio avevo questa sensazione come di essere perso e un po’ confuso, ma poi subentra la sensazione di chiarezza, di un cielo sconfinato sopra di te, e tutto inizia ad acquistare un senso, e ci sono luci sopra di te che si illuminano seguendo il ritmo delle note. Sono sensazioni molto specifiche, che ho provato in questi stati di coscienza” (da un’intervista a Noisey, questa)

Singularity, ovvero quando l’eccitazione da dancefloor incontra la meditazione trascendentale. Per qualcuno, il ritorno di Jon Hopkins a sei anni dal favoloso Immunity non raggiunge quelle vette. Per me – che con questo disco l’ho scoperto davvero e fatto mio – la prova di un talento, un senso dell’equilibrio e un’ispirazione costanti nel tempo.

Everything Connected è il sunto perfetto della sua techno umanista, una traccia monstre in cui il battito cardiaco accelerato – intorno ai 125 bpm – si incastra perfettamente alle pause ambientali sapientemente distribuite lungo il percorso.

Fattona e comunitaria nello spirito, questa dance fa percepire la vicinanza degli altri, il respiro della Terra, “la curvatura del mondo intero sotto la schiena” (bella, vero? Infatti non è mia). Una notte limpida compressa in dieci minuti, in time-lapse.

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