GiveMe5 (FridaysForFuture Edition) | Vol. 147
“Oggi, voi siete ciò che sta accadendo. Oggi, il vostro potere sarà percepito. Oggi, la vostra azione conta. Oggi nel vostro agire di singoli potrete stare con poche persone o centinaia, ma in realtà state con miliardi di persone da tutto il mondo. Oggi voi protestate per persone non ancora nate, e anche i fantasmi di quei miliardi stanno con voi. Oggi siete la forza della possibilità che scorre nel presente come un fiume nel deserto.” (Rebecca Solnit sul Guardian, qui)
Venerdì 15 marzo, in un centinaio di Paesi, si sono svolte oltre duemila manifestazioni – solo a Milano, per dire, c’erano oltre 100.000 persone in piazza – nell’evento più importante dei Fridays For Future, una serie di iniziative di giovani e giovanissimi studenti che – sul modello della straordinaria sedicenne svedese Greta Thunberg, che ha dato inizio a tutto nell’agosto 2018 – ai governi non chiedono parole e pacche sulle spalle ma interventi concreti per combattere il cambiamento climatico.
Non in un futuro imprecisato, ma subito: “non stiamo più parlando di una situazione in cui il riscaldamento globale è nel futuro. È qui. Sta succedendo ora”, ha detto Gavin A. Schmidt della NASA presentando lo studio che mostrato il 2018 come il quarto anno più caldo di sempre da quando questi dati vengono raccolti. Noi abbiamo scelto cinque canzoni per un percorso sonoro su questa apocalisse: i toni, appropriatamente e canzone dopo canzone, si fanno sempre più cupi. Perché la casa sta andando a fuoco e c’è da cacciare chi non sta facendo nulla per spegnere l’incendio.
Joni Mitchell | Big Yellow Taxi (1970)
don’t it always seem to go
that you don’t know what you’ve got till it’s gone
they paved paradise, put up a parking lot
Partiamo leggeri, con il primo classico di Joni Mitchell: esce nello stesso anno di un altro capolavoro vagamente ambientalista, After The Gold Rush di Neil Young (uno che poi, sul tema, prenderà una tangente piuttosto delirante) e solo dodici mesi prima del masterpiece definitivo della fase folk della Mitchell (Blue).
Big Yellow Taxi è giocosa, umoristica, un’accordatura aperta che invita a vorticare a occhi chiusi, mentre le parole sgorgano divertite da un’esperienza diretta della cantante, che dalla finestra di un hotel alle Hawaii vedeva montagne verdi e orridi parcheggi – di qui, appunto, il paradiso asfaltato di cui si canta. La sensazione che provo riascoltandola ora è la stessa di cui ricordo di aver letto una volta riguardo ad Autobahn dei Kraftwerk: la sensazione di un tempo in cui ci si poteva ancora permettere di essere leggeri, prima che ci accorgessimo di essere fottuti.
R.E.M. | Fall On Me (1986)
buy the sky and sell the sky
and lift your arms up to the sky
and ask the sky and ask the sky
don’t fall on me
Non c’è niente di più fragrante del sapore dei dischi della fase indipendente dei REM, quella che li portò dall’esordio di Murmur (1983) al primo grande successo (Document, quattro anni dopo): un piacere sotterraneo che ancora oggi si prova mettendo sul piatto quelle canzoni misteriose, mugugnate in testi incomprensibili e farciti di mappe e leggende. Proprio appena prima dell’esplosione commerciale sta l’album più divertente e aperto del periodo, Lifes Rich Pageant.
Fall On Me è un singolo perfetto, che fa vibrare di speranza anche a trent’anni dall’uscita. Una canzone che nella prima stesura parlava di piogge acide e poi divenne una più generale oppression song – definizione di Stipe – riguardo a tutte le cose, là fuori, che minacciano di schiacciarci se non agiamo per il meglio e nell’interesse di tutti.
Metallica | Blackened (1988)
blackened is the end, winter it will send
throwing all you see into obscurity
death of Mother Earth, never a rebirth
evolution’s end, never will it mend
never
L’apertura da capogiro di And Justice For All è affidata a uno dei maggiori riff scioglidita di James Hetfield – sul serio, guardate un qualunque tutorial che vi spieghi come suonare precisamente Blackened: c’è da perderci la testa se pensate che quello là, invece, canta mentre la suona. L’album è di gran lunga il più politico e cupo dei Metallica, che pure avevano dedicato le title-track dei due precedenti alla pena di morte (Ride The Lightning) e alla tossicodipendenza (Master Of Puppets): Ulrich li definirà i “CNN years” della band.
Blackened è olocausto nucleare zuppo dello stesso terrore paranoico e nero che ammantava tanta arte degli anni Ottanta – pensate al finale di Watchmen, pensate all’industrial o al noise. Ancora più impressionante e angosciante, se si pensa che questi dispacci dall’autodistruzione del genere umano sono scritti e suonati da gente di soli 24 anni: e d’altra parte che adulti potrai mai avere, se costringi i ragazzi a vivere in un inferno?
Radiohead | Idioteque (2000)
Ice Age coming, Ice Age coming
let me hear both sides
let me hear both sides, let me hear both
Ice Age coming, Ice Age coming
throw it on the fire, throw it on the fire, throw it on the
we’re not scaremongering
this is really happening, happening
Della capacità dei Radiohead di precorrere i tempi si può leggere ovunque: la loro opera, sin dai tempi di The Bends, si configura come una sorta di trattato filosofico sullo sgretolamento del tessuto sociale e sulle ansie dell’uomo contemporaneo, sempre più solo e proiettato verso l’interno mentre tutto intorno schermi e iperconnessione lo illudono del contrario. In questo, l’epocale doppietta Ok Computer / Kid A rappresenta l’apice di una parabola artistica senza paragoni, che consente a Thom Yorke e soci di essere centrali ancora oggi che quasi tutte le loro profezie si sono avverate nel peggiore dei modi.
Idioteque è – semplicemente – il pezzo più bello del disco più importante del nuovo millennio, sorta di techno da camera (niente ultrabassi da dancefloor qui), umanista (la voce epilettica di Thom schiantata su una base fratturata), malinconica (la melodia portante di quattro accordi). Nel testo, un cut-up di genocidi di guerra, donne e bambini nascosti nei bunker, relativismo che uccide e – soprattutto – l’apocalisse climatica nell’età del ghiaccio che arriva: la paura per il futuro è la stessa della Greta Thunberg del video che stava in cima alla pagina, quella con cui ogni bambino di oggi è costretto a svegliarsi ogni giorno.
Fuck Buttons | Sweet Love For Planet Earth (2008)
there is no grand reason or purpose for being alive
we’re here til we’re not, that’s the end, that’s the nature of life
we’re already dead if we don’t realize this is life
we may as well be dead if we don’t accept this is life
we’re as good as dead because this is what we’ve done with life
we’ve chosen to do nothing greater than this with our lives
for Sweet Love of Planet Earth all human beings must die
Dopo quattro classici assoluti, la conclusione della nostra playlist è affidata al brano più concettualmente violento e oscuro di tutti: Sweet Love For Planet Earth dall’esordio dei geniali Fuck Buttons, duo di Bristol – loro sono Andrew Hung e Benjamin John Power – che ha ormai all’attivo tre album di elettronica sperimentale e drone, sempre in bilico tra melodia celestiale e massacro sonico: questo brano è forse l’introduzione perfetta a un mondo che si mostra senza difetti in superficie mentre sotto sta andando in frantumi.
C’è, in Sweet Love For Planet Earth, un contrasto doloroso tra l’accessibilità melodica della parte strumentale – giubilante, euforica anche nelle più rumorose folate di sintetizzatori – e la voce urlata, distorta, che discetta dell’inevitabilità della morte e della necessità di accettare la fine delle cose (occhio: la sentite nel video Youtube qui sotto, mentre per la playlist Spotify abbiamo virato sul remix di Andrew Weatherall e della voce non c’è traccia). E sta qui, in coda a questa selezione, perché se non ci muoveremo anche noi tutti con la stessa forza di quei ragazzi che abbiamo visto venerdì nelle piazze di tutto il mondo non ci resterà altro che starcene seduti nei nostri salotti, smartphone in mano, a guardare la fine farsi sempre più vicina.