#GiveMe5 (Controfestival Edition) | vol. 174
Si è conclusa la 70esima edizione del festival di Sanremo, e ha vinto Diodato.
Si è conclusa la 70esima edizione del festival di Sanremo, e io come sempre non l’ho vista.
Si è conclusa la 70esima edizione del festival di Sanremo, e non ho nessuna opinione a riguardo.
Non ho nessuna opinione, però so per certe alcune cose.
So, innanzitutto, che quest’anno c’era un ottimo motivo in più per boicottarlo: la figuraccia rimediata da Amadeus alla conferenza stampa di presentazione, quelle oscenità che hanno fatto il giro dei social e di cui tutti abbiamo parlato, giustamente indignati.
Ma non si è andati abbastanza in là con l’indignazione per spingersi a dire che il sessismo di certe affermazioni non è quello di un semplice conduttore, ma di un intero sistema che non si fa problemi a mettere al volante della macchina televisiva più amata dagli italiani un tizio che quelle cose le pensa e le dice come fossero le cose più naturali del mondo. Ed è un sistema che non si fa problemi a riguardo perché quello è il modo di ragionare di una larga fetta della popolazione (soprattutto maschile) di questo Paese, ma pure perché ha rinunciato completamente a un’idea di responsabilità sociale da parte del servizio pubblico.
L’ha detto benissimo Luca Sofri: “il festival di Sanremo è un progetto mediocre, diseducativo, sterile e irrispettoso del pubblico, che funziona molto bene grazie alla professionalità esecutiva di molte persone che ci lavorano. Ma chi lo guida, chi lo costruisce, chi lo indirizza, fa delle scelte di coltivazione e incentivazione dell’ignoranza, di un’idea retrograda dell’Italia e di un concetto vile del servizio pubblico” (le altre sue considerazioni le leggete qui).
So anche che il festival rappresenta un passaggio quasi obbligato per chiunque faccia musica in Italia e si muova al di fuori di quello che ancora amiamo chiamare mainstream. Quella questione, insomma, che evidenziava Umberto Palazzo – dischi bellissimi, i suoi: da solo o con il Santo Niente – quando l’anno scorso si seppe che gli Zen Circus avrebbero partecipato alla kermesse: “i “nostri” a Sanremo vuol dire che non ce l’abbiamo fatta, vuol dire che la mia generazione e quella successiva di artisti alternativi al modello culturale imperante e opprimente hanno totalmente fallito nel loro scopo primario e non sono riuscite a creare un modello economico autosufficiente e a spostare di un centimetro l’impianto culturale di questo paese, che rimane fermo agli anni sessanta, se non a prima.”
So, infine, anche una terza cosa, quella che mi smuove forse più di tutte e che ogni anno mi ricorda perché è importante per me fare altro quando succede il festival di Sanremo. Per cinque giorni, quasi ogni amico – anche il più progressista, anche il più radicale – non farà altro che commentare ogni inezia dell’evento, tant’è che pure io che non l’ho visto so più o meno tutto quel che è capitato nell’edizione 2020.
Il problema non è che gli amici miei o vostri parlino delle canzoni o si appassionino a un programma tv, così come il punto non è neppure la qualità media dei brani in gara – su questo, come per ogni parere, ci va appiccicata una bella etichetta con scritto “de gustibus”. Il problema è, ancora una volta, che l’attenzione collettiva si è completamente spostata dalle cose alla discussione intorno a esse, con un topic che polarizza le opinioni per un certo periodo di tempo, fino a quando non ha finito di vendere e allora è tempo di passare ad altro.
Pensate solo alle domande che vi siete sentiti rivolgere negli ultimi mesi: hai visto gli Avengers? Hai visto Joker? Hai visto Bojack Horseman? Hai visto Game Of Thrones? Hai visto Sanremo? E da lì: hai visto i travestimenti di Achille Lauro? Hai visto il litigio tra Morgan e Bugo?
A me pare un sistema destinato a un certo punto a implodere per puro overload, ma intanto si mangia ogni possibile alternativa e azzera il livello del dibattito: una volta che il “tema Amadeus” è esaurito e si è saltati al successivo, ci si dimentica delle serissime ragioni (promemoria: un patriarcato soverchiante) per cui se ne parlava.
Ed è proprio da qui che ha preso le mosse il GiveMe5 di oggi, dedicato a un immaginario Controfestival: in direzione ostinata e contraria, ho scelto cinque brani densi ed emozionanti che mi hanno accompagnato mentre fuori non sembrava esserci altro dal festival. Per ricordare – a me e a voi che siete arrivati fin qui – che quello che conta non è tanto il monologare sui nostri profili riguardo all’hashtag del giorno, ma essere esigenti con l’Arte (che vuol dire pure “canzoni”, e non ce ne sono mai state così tante) e lasciarle il compito di arricchirci come individui, di offrirci strumenti per tendere la mano agli altri e dire: “mi sento così, e questa musica lo spiega. E tu come stai?”
Irreversible Entanglements | No Más (7’59”)
Mercoledì scorso al Bronson di Ravenna si è esibita Moor Mother.
Appunto qui, all’inizio del paragrafo, un dettaglio di data e luogo, perché questo evento rimarrà un momento centrale della mia vita musicale di questi anni. Non tanto e non solo per lo spettacolo in sé – più un rigenerante caos primordiale che un concerto – ma perché Camae Ayewa è per me un’artista fondamentale nella scena contemporanea.
Una che chiunque chiama a sé per infondere di sciamanica elettricità la propria musica – solo negli ultimi mesi è toccato al progetto Zonal (dub/industrial punitivo a cura di due signori del rumore come Kevin Martin e Justin Broadrick) e all’album celebrativo dei 50 anni del leggendario Art Ensemble Of Chicago. Una che, in proprio e a nome Moor Mother, mette insieme poesia, rap, drone, noise, gospel e blues per rivoltare la terra e riportare alla luce secoli di oppressione del popolo nero: segnatevi Analog Fluids Of Sonic Black Holes, perché di questo titolo e della voce portentosa che lo anima ci si ricorderà negli anni a venire.
Ora, poi, Ayewa è di ritorno con il collettivo free jazz Irreversible Entanglements: il secondo album è in uscita a marzo, e in questi giorni ne abbiamo avuto un primo assaggio con gli otto minuti del singolo No Más. Il quartetto degli strumentisti – contrabbasso di Luke Stewart, batteria di Tcheser Holmes, sax di Keir Neuringer, tromba di Aquiles Navarro – macina un tema funk jazz un poco meno incendiario di quelli ascoltati nell’esordio di un paio d’anni fa, mentre la voce interviene qui e là a declamare solenne di una liberazione prossima ventura. Il video del brano – uomini e donne di colore in tuta spaziale che camminano per le strade di Johannesburg, Sudafrica – sembra suggerire però che questa potrà avvenire solo con una fuga dalla Terra, proiettando tutto in un’ottica sci-fi e afrofuturista.
C’è poco da fare: quando Camae Ayewa parla, io sento la rivoluzione.
Makaya McCraven | New York Is Killing Me (5’19”)
L’ascolto del nuovo lavoro di Makaya McCraven porta con sé prima di tutto dubbi e timori: il suo We’re New Again è una rivisitazione dell’ultimo capolavoro di Gil Scott-Heron prima della morte.
Un album che già all’uscita nel 2010 suonava come la chiusura di un percorso artistico e di una vita, zeppo com’era di riflessioni sul passato, sui propri errori e sulle donne che avevano aiutato l’artista a diventare ciò che era. Quella che per la società patriarcale era una broken home per via della mancanza di una figura maschile positiva di riferimento, per Scott-Heron è un luogo di sovvertimento di cliché stantii e in cui ha potuto imparare i valori dell’empatia, dell’amore e della devozione.
E però era pure un disco che sembrava vivere in un vuoto fuori dal tempo, brusco e severo, con un impianto sonico scarno influenzato dal blues e dall’hip-hop, ma soprattutto imbevuto di un’elettronica scurissima – tutte influenze portate in dote dal produttore Richard Russell della XL Recordings – che metteva al centro la voce densa e rauca del Nostro. Insomma: I’m New Here è tra le più belle opere degli Anni Dieci, ma tornarci oggi è come ritornare a una vecchia casa abbandonata, popolata solo di fantasmi.
Bene: il batterista Makaya McCraven – il più cool tra i jazzisti contemporanei, e, se vi manca, è il caso che recuperiate Universal Beings – vi ha fatto ritorno a dieci anni di distanza, prendendo i nastri con la voce di Scott-Heron e immaginando un accompagnamento completamente nuovo. Si è circondato di figure amiche (Jeff Parker, Brandee Younger, Junius Paul), ha intrecciato il concept dell’album con la propria esistenza (dentro ci sono pure sample del padre e della madre alle prese con strumenti e registratori) e ha trasformato quell’oggetto alieno e dai bordi taglienti in una sfera dalla superficie luccicante di jazz, funk e soul.
Certo che è strano, sentire chitarre, clarinetti, arpe e sax su quello che si pensava un connubio inscindibile di parole e suoni. Ma la voce dall’aldilà di Gil Scott-Heron è perfettamente calata nel contesto, e in certi momenti – quelli più ritmati – il risultato è impressionante. Anzi: in New York Is Killing Me sono proprio fuochi d’artificio.
King Of The Opera | The Final Scene (10’16”)
Alberto Mariotti e io abbiamo quasi la stessa età ed è per questo, forse, che seguirlo nelle sue avventure musicali è sempre stato per me anche un modo per riflettere sulla mia generazione. Perché Alberto – lo dico senza grossi timori di smentita – è probabilmente il più talentuoso fra i musicisti italiani nati alla metà degli Ottanta, ma pure uno dei meno fortunati (non ha potuto raggiungere neanche lontanamente la notorietà di Iosonouncane, per dire di un altro coetaneo).
Se avete avuto la fortuna di ascoltarlo quando psicotizzava il blues elettro-acustico sotto il buffo nome di Samuel Katarro, ne avrete notate le doti di chitarrista nervoso e cantante eclettico e capace di un’infinità di timbri differenti. Se avete ascoltato il suo album come King Of The Opera, sarete rimasti sorpresi dalla delicatezza assoluta con cui affrontava spiritelli folk-pop e quieti miraggi psichedelici.
Poi più niente, e un silenzio – a parte un album di cover e un EP – durato otto anni.
A inizio 2020, però, l’inaspettato: Alberto è tornato con Nowhere Blues, un impasto da cui sono spariti gran parte degli ingredienti che ne avevano determinato la traiettoria artistica precedente, ed è ripartito da zero con un lavoro singolare, costruito su elettronica povera e dilatazioni ambientali. The Final Scene, in particolare, è un gioiello: pura IDM su cui vi verrà decisamente voglia di dimenarvi, sebbene al primo contatto potrà suonarvi quasi distaccata: la voce è sonnambula, ma, mentre declama frasi come “marching into the air” o “crawling on the water”, sembra voler dare istruzioni su come orientarsi in quello strano flusso sonoro.
Del resto è quello che ha sempre fatto la migliore elettronica strumentale: con la forza del solo titolo è capace di suggerire uno stato d’animo coerente con la musica. E Mariotti, in alcuni momenti, sembra in grado di padroneggiare alla perfezione anche questa lingua.
Katie Gately | Bracer (10’32”)
Mentre scrivo queste righe, Katie Gately è ancora un affascinante mistero.
Tutto quel che so di lei è racchiuso in due pagine sull’ultimo numero di The Wire e nei due brani che hanno anticipato l’uscita del nuovo album. Loom arriverà il giorno di San Valentino e sembra avere tutte le carte in regola per sostituire nello stereo i dischi che si sono guadagnati una heavy rotation in questo primo scorcio di 2020 – Countless Branches di Bill Fay e Suite For Max Brown di Jeff Parker su tutti.
Un breve sunto, che ci tornerà utile. Abbandonato l’obiettivo originario di una carriera nell’ambito del sound design per il cinema – la ragione: un ambiente squallidamente sessista – questa incredibile non-musicista ha iniziato a registrare musica a partire dal 2013, per poi dedicarsi alla produzione di alcune tracce del sorprendente soil di serpentwithfeet, a un paio di remix per Bjork e Zola Jesus e all’esordio Color.
Tra quell’album e il nuovo lavoro sono passati quasi quattro anni, durante i quali un cancro si è portato via la madre Patricia. Il periodo della malattia materna, trascorso a Brooklyn con la famiglia, è diventato per l’artista l’innesco per una riflessione sulla perdita e sulla direzione inevitabile del tempo.
Certo è che la storia della madre sarebbe stata già di per sé materiale per un biopic notevole: una ex-suora che aveva avviato uno studio di psicologia a New York in un’epoca in cui il settore era ancora completamente dominato dagli uomini. Il rapporto contrastato della donna con la religione e la Chiesa ha influenzato la figlia sia dal punto di vista educativo (contrariamente a quanto accade di solito, la giovane Katie ha scelto di avvicinarsi alla religione in contrasto coi genitori, per poi capire che non faceva per lei) sia da quello musicale (la musica sacra era dappertutto, in casa).
Patricia ha fatto in tempo ad ascoltare l’album, prima di morire, e Bracer era la sua preferita.
Un brano dallo sviluppo impressionante, dieci minuti di voci trattate e partiture sviluppate al computer in cui i crescendo e le esplosioni sono gestiti come rappresentazioni dell’angoscia. Per dirla con Gately, “l’ansia irride le narrazioni lineari e si nutre invece di momenti casuali di incertezza: per questo non ci sono cori o ricapitolazioni in Bracer. Piuttosto, la canzone mira a evidenziare la natura effimera di angoscia e terrore. Ho scoperto che la resistenza è il più grande carburante dell’ansia, ma la cordialità è la sua più grande confusione. Per calmarmi, ho steso un tappetino di benvenuto e ho invitato tutta la mia inquietudine a suonare ad alta voce.”
Nessuno strumento musicale è stato utilizzato per produrre questo piccolo capolavoro, solo suoni registrati e mescolati – l’uomo che si fonde alla macchina fino a rendersi indistinguibile da essa, come in Proto di Holly Herndon. Eppure, questo modus operandi transumanista esalta ancora di più il lato dolorosamente umano della questione, con la voce che si fa largo tra folate di elettronica per ritrovare un qualche tipo di pace.
King Krule | (Don’t Let The Dragon) Draag On (2’32”)
Poche chiacchiere: The OOZ è uno dei dieci migliori album del decennio appena concluso, e King Krule – nome d’arte di Archy Marshall, londinese classe 1994 – è un geniaccio. Pare doveroso, dunque, chiudere questa breve carrellata sull’inizio dell’anno nuovo con una piccola anticipazione dal suo prossimo lavoro, Man Alive!, in uscita fra un paio di settimane.
(Don’t Let The Dragon) Draag On dura poco più di due minuti ed è solo l’ultima anteprima di una serie iniziata a novembre con la condivisione di Hey World!, cortometraggio di un quarto d’ora a bassissima fedeltà in cui il nostro veniva ripreso a suonare quattro brani inediti davanti a sfondi variabili – ciminiere fumanti; una spianata nebbiosa; le luci di una città lontana, nella notte; un’alba sul mare. A far da collante, l’inconfondibile pasta sonora di Marshall, ancora più jazzy, frusciante e stordita.
I riferimenti per il titolo del nuovo pezzo sono almeno due, leggo in giro: una scena di Adventure Time e il film d’animazione fantascientifica Il Pianeta Selvaggio, di Roland Topor e René Laloux, in cui gli umani sono praticamente gli animali domestici di creature chiamate Draag. Difficile immaginare coordinate più adatte per una musica così personale: King Krule suona anche stavolta come se fosse il primo uomo a fare musica su questo pianeta oppure l’ultimo rimasto a produrne, dopo una qualche catastrofe.
Come sempre, lo aspettiamo come una rivelazione.