GiveMe5 (Colin Stetson Edition) | Vol. 150
Sono arrivato da Bologna all’Auditorium Sanbapolis di Trento – una splendida struttura nel mezzo del nulla – che mancavano un paio d’ore all’inizio del concerto; con me c’era Marco, che invece veniva da Mestre, e abbiamo immediatamente convenuto che fosse improbabile che qualcuno si fosse mai fatto duecento-e-passa chilometri per assistere a un live del sassofonista Colin Stetson. Anche se poi, a dirla tutta, ci siamo trovati immersi in una meravigliosa microbolla fatta di un sacco di ragazzi e giovani nerd – immaginereste mai di ascoltare una conversazione tra ventenni su Python a un concerto per solo sassofono? – che ci ha ripagati subito del viaggio.
E comunque non era pesata a nessuno dei due, quella sfacchinata zuppa di una passione per la musica che diresti possibile solo in adolescenza (e invece no: si può anche crescere conservando un po’ di grazia, invece di imbolsirsi e imbruttirsi di colpo; ma puoi farlo solo se l’Arte è una lente attraverso cui guardi il mondo, non un passatempo): Stetson è uno dei giganti della scena contemporanea, e da un decennio abbondante infiamma opere proprie e altrui con uno stile unico, rivoluzionario. In un tempo di superlativi ed elogi sprecati, per lui possiamo tranquillamente spendere l’appellativo di “genio”.
Una carriera incredibile, quella del Nostro, spesa come collaboratore di grandi nomi variamente pop (Arcade Fire, Tom Waits, TV On The Radio, Bon Iver) e autore di album già classici: re-interpretazioni della classica contemporanea (vedi la Sinfonia n.3 di Gorecki), colonne sonore (Hereditary), maschere di volta in volta doom (il martellare di All This I Do For Glory) e paradisiache (Never Were The Way She Was, con Sarah Neufeld), una mastodontica trilogia (New History Warfare).
“Non penso ai miei pezzi come sperimentazioni sonore o astrazioni timbriche. Per me sono molto chiaramente canzoni. Non sono necessariamente basate sui canti popolari americani, o sulla musica gospel prima della guerra, non ascolto una quantità enorme di quel repertorio, la mia dieta è costituita da un sacco di musica altamente melodica, da molti compositori classici e tanta musica metal” (dalla monografia di Ondarock)
Le definizioni stanno strette a un musicista come Stetson. Jazz, metal, classica, folk, avanguardia: tutto questo c’è, non si potrebbe negare; eppure non basta per dire di tracce – scusate, canzoni – capaci di ingenerare nell’ascoltatore vera commozione tramite la pura esperienza sonica, costruita sulle note a cascata e i riverberi di un sassofono che suona come un qualche gigantesco animale preistorico, sul battere dei tasti, su un’amplificazione maniacale (una ventina, i microfoni sparsi sullo strumento; Stetson ne tiene pure uno stretto alla gola, per carpire l’ululato delle corde vocali), sull’ormai arcinoto respiro circolare.
Una musica che spesso non somiglia ad altro che si sia mai ascoltato prima e in cui la tecnica è al servizio dell’emozione e dell’esplorazione – cose che per me trovano paragoni solo nel Demetrio Stratos solista: un’arte incontaminata, brutale e romantica, che vuole mostrare ciò che non si è mai afferrato prima, pronta a bruciarsi le ali pur di avvicinarsi al sole.
E l’altra sera, schiantato sulla mia seggiolina con le mani nei capelli e il sorriso in faccia per quello che stavo vedendo, tutto quello che avevo imparato ad amare negli anni l’ho potuto finalmente toccare con mano, arricchito di una dimensione finalmente fisica – la fatica, la dedizione, lo sforzo di spostare ogni volta il limite, perfino le imprecisioni – che rende ora l’arte di Colin Stetson ancora più imprescindibile, per me. La ricorderò, questo è certo: oggi intanto provo a raccontarvela in cinque brani sparsi.
Spindrift | Colin Stetson
Per cominciare, l’unico brano fra quelli scelti qui che ho avuto la fortuna di ascoltare anche a Trento: il più vivace e aereo fra quelli dell’altrimenti terreno All This I Do For Glory, il disco in cui Stetson ha lasciato da parte gli spunti più lirici delle opere precedenti in favore di un umore più scuro. Epperò il sax alto di questo brano – che nelle mani del musicista sembra scomparire, tanto è minuscolo rispetto al gargantuesco, inusuale contrabbasso per cui è conosciuto – è pura poesia, con motivi paralleli e circolari che sembrano fiorire a sorpresa da ogni parte. Ho aperto le finestre, stamattina, e le tende si sono gonfiate: è entrata Spindrift insieme a una citazione dal fondo della memoria, “si alza il vento, bisogna tentare di vivere”.
Confessions Pt.II | BadBadNotGood & Colin Stetson
Tra le mille partecipazioni di Colin Stetson a dischi normali, qui c’è una delle ultime e più divertenti: Confessions pt.II è uno degli highlight del quarto album del collettivo strumentale jazz / hip-hop BadBadNotGood (ve li ricordate? Stavano anche in Lust di Kendrick Lamar, un paio d’anni fa). L’impressione è che i ragazzi canadesi alle volte traccheggino, che il loro pazzesco talento di strumentisti non sia sfruttato ancora al massimo: ma il riff mostruoso e ballabile di questo pezzo, impreziosito dagli interventi di Stetson, sembra mostrare la strada per un futuro di fantastica libertà creativa.
The Rest Of Us | Colin Stetson & Sarah Neufeld
Never Were The Way She Was, invece, è un intero disco condiviso con Sarah Neufeld, violinista e membro ufficiale degli Arcade Fire da Neon Bible fino a Reflektor. Registrato live in studio, l’album mostra un fenomenale interplay fra i due musicisti e offre all’ascoltatore un’amplissima gamma di atmosfere differenti: dal minimalismo più quieto al puro furore, di cui la frenetica The Rest Of Us è un perfetto esempio – Stetson batte sui tasti creando un groove quasi techno (roba che farebbe impazzire Thom Yorke, sono sicuro), mentre la Neufeld letteralmente grattugia le sue quattro corde. E alla fine ha ragione la recensione di AllMusic: l’unico difetto di Never Were The Way She Was è che finisce troppo presto.
Who The Waves Are Roaring For | Colin Stetson & Justin Vernon
Forse non lo sapete, magari non ci avete fatto caso, ma Colin Stetson è fra gli artefici della piega – sempre più sghemba, disarticolata – che il suono di Bon Iver ha preso dopo l’angelico esordio For Emma, Forever Ago (particolarmente nel secondo, omonimo, cui il Nostro ha contribuito con sax, flauto, clarinetto e arrangiamenti vari). Era solo questione di tempo perché le parti si invertissero: il favore è stato ricambiato in quello che resta forse il più grande capolavoro di Stetson a oggi, New History Warfare vol.3.
Tra esplosioni di pura violenza (Brute), un costante senso di minaccia (Hunted, High Above a Grey Green Sea, To See More Light) e suoni che sbattono su volte luminose (Among The Sef), è proprio il falsetto di Justin Vernon a regalare una cantabilità inattesa a composizioni meravigliose: dall’apertura And In Truth a Who the Waves Are Roaring For, questo album è un lamento che si muove lento e inesorabile nelle lande desolate alla fine dei tempi.
Sorrow: III – Lento – Cantabile Semplice | Colin Stetson
“Negli anni ho ascoltato questo disco innumerevoli volte, sempre determinato ad assorbire ogni istante di esso e a conoscerlo sempre più a fondo. Questo grande interesse nei confronti dell’opera mi ha convinto a rielaborarla personalmente. L’idea di fondo è semplice e fedele alla versione originale. […] Il mio è stato un approccio additivo, nel senso che ho immaginato certi suoni o certe parti, sebbene non presenti nell’originale, che erano per me come una sorta di estensioni del nucleo emozionale della sinfonia.” (Dalla scheda di SentireAscoltare)
Non so nulla, di classica contemporanea (o di classica in generale, se è per questo). Per questa ragione mi è ancora più difficile spiegare l’impatto che la “sinfonia di canzoni dolenti” del compositore polacco Henryk Gorecki ha esercitato su di me sin da quando ne ho ascoltata la versione immaginata da Colin Stetson tre anni fa; non sono l’unico, se è vero che – sin dall’edizione in cd del 1992, a quindici anni buoni dalla prima esecuzione – l’opera ha venduto più di un milione di copie, raggiungendo un pubblico neanche lontanamente paragonabile a quello di altre composizioni simili del XX secolo. Di recente, Beth Gibbons dei Portishead ne ha cantata una versione delicata e intimista, accompagnata da un’orchestra diretta dall’altro nume Krzysztof Penderecki (citofonare Radiohead, prego).
Quella di Stetson è appunto una re-immaginazione della Terza Sinfonia, in cui il sassofonista ha sostituito la strumentazione originale con legni, sintetizzatori e chitarre, conservando però violini e violoncelli (ancora Sarah Neufeld, qui). E sebbene sia preferibile naturalmente ascoltare questi cinquanta minuti di musica violentemente emotiva per intero, l’idea di concludere questa playlist con la pace suprema degli ultimi istanti del terzo movimento sembra sorprendentemente adeguata: qualcosa fra l’apocalisse Godspeed You! Black Emperor, la creazione secondo Terrence Malick di The Tree Of Life e le lacrime di speranza de La Doppia Vita di Veronica di Krzysztof Kieślowski.