#GiveMe5 (Cinema Edition) | vol. 175
Li conosco bene, ormai, quegli sguardi perplessi; quell’oscuro scrutare degli amici quando racconto loro che il mio amore per il cinema è sbocciato tardi – a 27 anni suonati – e con The Tree Of Life di Terrence Malick, uno dei film più incompresi, criticati o semplicemente sfottuti del decennio appena concluso. Perfino io, del resto, non ho resistito alle vignette a tema di Zerocalcare, capaci di memificare in poche battute uno dei maggiori e più singolari registi della storia della Settima Arte: “in trecentosessantun minuti Terrence Malick avrebbe fatto un film in cui cade una pera da un ramo”.
Eppure sono passati quasi dieci anni dal giorno in cui lo vidi in sala, e il ricordo di quella prima volta è ancora indelebile come fosse stata la prima volta di qualunque cosa.
Non immaginavo nemmeno, allora, che potesse esistere cinema simile, capace di racchiudere in una struttura annidata una storia di crescita nel Texas degli anni Cinquanta, costruita come un flashback di un personaggio divenuto poi adulto e inserita all’interno di una cornice in cui viene tradotta in immagini la creazione dell’Universo e della vita sulla Terra. A tenere insieme queste cose così apparentemente inconciliabili sono il dolore di una madre, che cerca in Dio – e oltre lo Spazio e il Tempo – una risposta a un evento tragico, e un potente apparato filosofico/teologico fondato sull’eterno contrasto tra Natura e Grazia.
Facile capire perché The Tree Of Life sia stato così malmenato, nonostante la Palma d’Oro a Cannes. Non c’è spazio, oggi come allora, per un’opera così programmaticamente monumentale; non c’è davvero voglia di qualcosa che ti lasci appeso alla domanda più faticosa di tutte: “cosa ho appena visto?”. L’idea di non avere gli strumenti per capire completamente un’opera d’arte, credo, è una di quelle sensazioni che gelano il sangue nelle vene all’uomo contemporaneo, apparentemente sempre a un solo clic di distanza dalla Conoscenza e dalla comprensione del mondo intorno. Col tempo, mi sono fatto l’idea che le risatine di scherno per Malick – che peraltro se l’è anche un po’ andate a cercare con le produzioni successive – siano in realtà di disagio.
È un male, sapete? Ne parlavo qualche giorno fa con Stefania, di quanto sia importante la sensazione di non potersi spiegare proprio tutto di qualcosa che si sia appena visto, letto, ascoltato: è esattamente in quegli interstizi che l’arte ci lascia lo spazio di crescere come persone; il resto è artigianato, buono o cattivo non importa. Non è un caso che Roger Ebert definisse il grande cinema una straordinaria macchina per l’empatia.
Ma per l’ennesima volta sto divagando, quando invece sarebbe proprio ora di arrivare al punto. Eccomi.
Di tutte le meraviglie visive di cui è zeppo l’opus magnum di Malick si è parlato giustamente in continuazione: la sua influenza è ovunque, e a me pare proprio che ci siano un “prima” e un “dopo” The Tree Of Life nel cinema mainstream, fosse anche solo perché poi il geniale direttore della fotografia Emmanuel Lubezki si è preso tre Oscar consecutivi (Gravity, Birdman, Revenant) e un’infinità di spettatori ha introiettato quello stile.
Ma io non potevo che rimanere travolto anche dall’altrettanto straordinario apparato sonoro del film: in certi momenti non si riesce neanche a immaginare che certe partiture siano state scritte in epoche passate senza che il musicista vedesse scorrere davanti a sé proprio quelle immagini. C’è il rondò barocco settecentesco di Francois Couperin che compare due volte all’interno della pellicola, in momenti chiave – uno, in particolare, in cui il contrasto perenne fra padre e figlio sembra dissolversi davanti alla bellezza della musica che stanno eseguendo con pianoforte e chitarra. E c’è, letteralmente nell’alto dei cieli, il Lacrimosa di Zbigniew Preisner che accompagna l’esplodere delle galassie.
Il brano era stato composto alla fine degli anni Novanta per l’amico Krzysztof Kieślowski, da poco scomparso e per il quale Preisner aveva creato le musiche di capolavori come La Doppia Vita di Veronica, l’intero Decalogo e la trilogia dei colori – peraltro prendendosi la briga di crearsi un alias immaginario nell’inesistente compositore olandese Van Den Budenmayer, menzionato in tante di quelle pellicole. Ripresa per The Tree Of Life, la composizione si trasforma da requiem in accompagnamento per l’inizio di tutto, decretando per sempre inscindibili nascita e morte.
Ecco: se dovessi dire un momento esatto in cui il Cinema mi ha colpito in tutta la sua potenza, indicherei proprio quello. C’era la musica di mezzo, come sempre, e da lì voglio partire per una selezione di cinque colonne sonore recenti che rendono per me ancora fondamentale l’immersione nel buio di una sala.
Ritratto della giovane in fiamme | Celine Sciamma
Musiche di Jean-Baptiste de Laubier e Arthur Simonini
Raramente, al cinema, ho visto rappresentato il desiderio in un modo tanto intenso quanto quello portato sullo schermo da Céline Sciamma per il suo quarto lungometraggio.
Storia di Marianne, pittrice della Francia pre-rivoluzionaria chiamata a ritrarre Héloise, riluttante ereditiera che sta per essere data in sposa a un nobile che non ha mai conosciuto, Ritratto della giovane in fiamme crea un mondo onirico popolato di sole donne in cui le figure maschili sono distanti e compaiono al principio e alla fine del film con l’unico compito di ricordare loro – e a noi che guardiamo – che nella realtà in cui questa finzione prende corpo esse non hanno alcuna libertà per sé.
Più del fuoco dell’innamoramento che divampa incontrollabile e che mi ha fatto stare in punta di poltrona per due ore buone, qui mi preme sottolineare un altro dettaglio che rende il film indimenticabile: il ruolo dell’arte nella vita dei personaggi. Oltre che motore della vicenda – che ruota appunto attorno a un dipinto – essa s’insinua nella trama in momenti chiave: basti pensare alla scena in cui, in una cucina illuminata da una luce fioca, le due ragazze e la serva Sophie leggono, discutono e rileggono a fondo il mito di Orfeo ed Euridice fino a comprenderlo – Orfeo, voltandosi, fa la scelta del poeta: guardare al posto di vivere – e a comprendere qualcosa in più di se stesse.
Quasi del tutto assente, la musica riveste un simile ruolo di epifania.
Ritratto della giovane in fiamme è ambientato in un’epoca di molto antecedente alle registrazioni sonore, un’epoca in cui – come spiega benissimo David Byrne nel classico saggio Come funziona la musica – se volevi ascoltare musica in casa, dovevi suonarla (ed è anche lì che si ritornerà, secondo Byrne, quando vinili, CD, mp3 e servizi di streaming saranno passati).
Per questo Marianne ha un unico modo di far ascoltare il Presto dell’Estate di Vivaldi: suonarlo al clavicembalo per Héloise, subito sconvolta da quell’esecuzione incerta che la mette in contatto per la prima volta con un’emozione fino ad allora sconosciuta (quel testo è lì per lei, in fondo: “ah che pur troppo i suoi timor son veri / Tuona e fulmina il ciel e grandinoso / Tronca il capo alle spiche e a’ grani alteri”). Quando ritornerà, alla fine del film, sarà come se fosse passata una vita intera.
Di mezzo, però, c’è un’altra scena fondamentale in cui è la musica a farsi puro cinema.
Succede tutto in una notte in cui le ragazze partecipano a una festa in un villaggio vicino, dopo avervi accompagnato Sophie per un aborto – unico altro segno tangibile di una presenza maschile. Qui un gruppo di donne si raduna attorno a un fuoco in una radura e, preda di una trance da antico rituale pagano, intona un brano che impiega sole tre parole per condensare il senso di vite di cui si decide altrove: fugere non possum.
Uncut Gems | Josh e Benny Safdie
Musiche di Daniel Lopatin
L’ultimo dei fratelli Benny e Josh Safdie mi ha ricordato che Adam Sandler sa essere un grande attore. Già The Meyerowitz Stories aveva lanciato segnali, ma è con Uncut Gems che pare di aver ritrovato un talento che non brillava così dai tempi di Ubriaco d’Amore di Paul Thomas Anderson, e perdipiù in un gran film.
Sandler è Howard Ratner, gioielliere newyorkese affogato nei debiti di gioco che prova a saldare smerciando nei modi più rocamboleschi un opale su cui è riuscito a mettere le mani; nel frattempo, prova a far funzionare contemporaneamente il rapporto con moglie e figli e una relazione extra-coniugale.
Esattamente come per il Robert Pattinson di Good Time, però, anche qui abbiamo a che fare con un’esistenza che rotola su un piano inclinato, senza possibilità di redenzione: ogni scelta può solo peggiorare le cose, e il film è splendido nel giocare con le tue aspettative e nell’illuderti che ci sia la possibilità di una vittoriosa catarsi. Che però non arriva mai: il gran finale è perfettamente logico, anche se non te lo aspetti più.
Due ore e un quarto di cinema isterico e in cocaina, Uncut Gems è costruito in parallelo alle musiche di Daniel Lopatin, che gli appassionati di elettronica conoscono come Oneohtrix Point Never. C’è un po’ di tutto, nelle diciassette tracce della colonna sonora, un collage che a certa techno notturna affianca cori kitsch, vaporosi sintetizzatori di qualcuno che ha ascoltato parecchio Tangerine Dream e Vangelis e anche una certa delicatezza, impensabile per l’adrenalina di Good Time. C’è un po’ di tutto, dicevo, ma tutto è funzionale a un sound design impressionante, voci comprese – chiunque, qui dentro, parla come se non respirasse e un po’ più forte del necessario, rendendo inevitabile che ogni confronto diventi uno scontro.
Circa a metà dell’opera, in una scena memorabile, i bpm si alzano a un livello da droghe performative, mentre Howard viene trascinato via a forza dallo spettacolo teatrale della figlia: i sei minuti al cardiopalma di School Play sono il momento più esplicativo della colonna sonora e del film, uno di quei promemoria che ti ricordano che non c’è modo che una storia del genere vada a finire bene. Quando Howard torna a sedersi in platea dopo essere stato recuperato dalla moglie nel bagagliaio di un SUV, si comporta come se non fosse successo nulla, affettuoso come se potesse essere davvero un buon padre di famiglia; un attimo dopo, lo ritroviamo a un party in un club ad attaccar briga con il rapper The Weeknd e l’amante.
Lo scontro con quest’ultima – disperata come disperate sono quasi tutte le figure che ruotano attorno a un uomo schiavo delle proprie dipendenze – si risolve con una frase che farebbe da perfetto titolo alternativo per Uncut Gems: un sonoro, irrevocabile “Fuck You Howard”.
Midsommar | Ari Aster
Musiche di Bobby Krlic
Qualche giorno fa, sul sito del British Film Institute, è stata pubblicata la lista dei 20 più importanti registi contemporanei secondo il Premio Oscar Bong Joon-ho, sulla bocca di tutti con lo straordinario Parasite dopo una carriera che conta non meno di tre capolavori. In rigoroso ordine alfabetico, il regista coreano menzionava tra i tanti Ali Abbasi (Border), i nostri Pietro Marcello e Alice Rohrwacher, Chloé Zhao (qui su SALT menzionata per The Rider), Jennifer Kent (recuperare, subito, Babadook) e Jordan Peele; all’inizio, però, stava Ari Aster, autore di due dei più rabbrividenti film recenti che abbia avuto la fortuna di vedere.
Nemmeno 34enne, il regista newyorkese ha saputo imporsi come una delle voci più singolari di questi anni, capace com’è di rielaborare le forme dell’horror per dar corpo a paure e angosce tutte interiori. Hereditary, del resto, era un lungometraggio d’esordio davvero folgorante: tutto quel che solitamente in questo genere si trasforma in una spiegazione razionalmente accettabile attraverso una negazione delle premesse sovrannaturali, qui – come in The Witch di Robert Eggers – il demoniaco è reale, con conseguenti facce perplesse degli spettatori dei multisala in cui la distribuzione era riuscita a portare il film (perché l’horror alla fine riesci a portarlo ovunque). Midsommar spinge ancora più a fondo il piede sull’acceleratore del perturbante.
Una tragedia familiare e una relazione malconcia e piena di non-detti portano Dani a seguire il fidanzato Christian e alcuni amici in un viaggio di studio antropologico presso un villaggio svedese: rituali arcaici di violenza sanguinaria e inspiegabile agli occhi degli ospiti – calati peraltro in un contesto in cui non tramonta mai il sole e tutto si svolge nella più imperturbabile quiete – faranno venire alla luce tutte le ansie e le paure represse, conducendo a un finale di una psichedelia acida quasi trionfale. La musica di Bobby Krlic vanta la medesima qualità narrativa, pastorale e distorta.
Classica da camera che non ha paura di sporcare gli archi e il bello con bassi possenti ed elettronica, la colonna sonora di Midsommar è probabilmente quella che ho ascoltato di più negli ultimi anni indipendentemente dal film cui era legata – unico altro caso paragonabile, quella di Phantom Thread curata da Johnny Greenwood. Difficile immaginare qualcosa di più adatto al cinema di Aster dei droni inquietanti di Gassed o Halsingland o della pura luce di The Blessing, romantica come una grande soundtrack hollywoodiana in cui però qualcosa non torna.
La chiusura – dopo l’orgasmo collettivo di Chorus Of Sirens / A Language Of Sex – è affidata all’epica di Fire Temple: i bordoni d’archi, lenti e ampi, bruciano piano come la presa di coscienza che si sublima dopo centoquaranta minuti di attesa snervante e tensione crescente.
Piccole Donne | Greta Gerwig
Musiche di Alexandre Desplat
Un piccolo miracolo dal cuore caldo, l’adattamento di Piccole Donne portato sul grande schermo da Greta Gerwig. Non che mi aspettassi di meno, vista la sensibilità mostrata nel recente passato sia come attrice che come regista, ma non era scontato che questo film rispondesse anche a una questione spinosa: ha senso fare un film del genere nel 2020?
Il materiale di partenza – i libri di Louise May Alcott, già resi materiale da cinema parecchie volte in passato – viene scomposto da Gerwig sovrapponendo i due piani temporali del presente di giovani donne delle sorelle March e del loro passato di ragazzine, distinguibili grazie a scelte di colore fortemente differenziate (le tonalità più fredde, manco a dirlo, sono riservate all’età della maturità, quella della malinconia e della responsabilità). Il cast è pressoché perfetto: è difficile pensare di rivedere prima di vent’anni qualcun altro vestire i panni di Jo (Saoirse Ronan), Meg (Emma Watson), Beth (Florence Pugh, a rischio Midsommar in un paio di scene), Laurie (Timothée Chalamet) o Marmee (Laura Dern, attrice mai troppo lodata).
Un’operazione scivolosissima, che altre mani avrebbero reso un polpettone indigesto, diventa l’occasione per Gerwig per mostrare un tocco personale, nonostante la sobrietà di fondo. Nessuna scena si trattiene un secondo più del necessario: ci si rende conto solo alla fine che, più che indurre alla commozione per singole scene madri, è l’intero arco narrativo dei personaggi a risultare emozionante e per questo convincente.
Perdipiù, il nuovo percorso di Jo mette bene in luce una delle tematiche più care alla Alcott, per cui vale la pena scomodare le parole di Luisa Muraro, che definiva Piccole Donne un romanzo di iniziazione: “il romanzo di formazione mostra un percorso per diventare quello che la società domanda o aspetta, mentre il romanzo di iniziazione racconta i passaggi che ti portano a scoprire quella che sei, e a diventare quella che puoi essere, più profondamente. L’iniziazione ha a che fare con la nascita della libertà, quella associata alla scoperta di sé, ed è una cosa che, se non hai l’idea di questa libertà, non esteriore ma intima e personale, può essere scambiata con la moderazione o il conformismo.”
In tutto questo, uno dei punti di forza del nuovo Piccole Donne sta senz’altro nell’indimenticabile colonna sonora del compositore francese Alexandre Desplat, due volte Premio Oscar per Grand Budapest Hotel e La Forma dell’Acqua. Un’ora di grandi temi che fioriscono trovando poesia in ogni angolo, a partire dal motivo che apre l’opera: leggiadro e divertito, il volteggiare di archi e pianoforte imita lo scalpiccìo delle ragazze su e giù per le scale di casa e poi fuori, magari nella neve, e riproduce l’eccitazione e l’innocenza e la meraviglia di tutto degli anni giovani.
E a volte, su quell’eterna leggerezza che man mano si tinge di nostalgia e consapevolezza, sembra vegliare lo spirito benevolo di Vince Guaraldi, che più di mezzo secolo fa seppe portare il jazz nel Natale di Charlie Brown.
Mandy | Panos Cosmatos
Musiche di Jóhann Jóhannsson
Ora: mi rendo conto che sia veramente difficile farsi prendere sul serio in un post che parte da Terrence Malick e dalle sfere celesti di The Tree Of Life e finisce nel gore di Mandy. Eppure uno degli obiettivi di questo pezzo è anche quello di dire che sì, si può fare ottimo cinema anche con premesse differenti: un revenge movie che ha come protagonista un Nicolas Cage intento a trovare modi creativi e dolorosi – battaglia a colpi di motosega inclusa – per eliminare uno a uno i membri di un culto hippie che gli hanno distrutto la vita.
La definizione migliore per le atmosfere di Mandy l’ho letta sul sito di Roger Ebert: “la copertina di un album metal anni Ottanta che prende vita.”
E in parte è sicuramente così, per via del pantone rosso-sangue di cui il film è immerso sin dalla locandina, del tono allucinato e dopato della narrazione e della qualità quasi cartoonesca dei cattivi della situazione (una gang di demoni motociclisti). Per non parlare dell’ambientazione all-american di un’opera letteralmente inimmaginabile altrove; quella profonda provincia statunitense che Nicola Lagioia, parlando di It, descriveva così: “non l’America rurale di Steinbeck e Faulkner, ma i paesini del nordest dove le case della gente sono piene di statue di Gesù in plastica luminosa e le strade di camionisti che trasportano legname guidando con la pancia piena di birra e i Metallica a palla in autoradio” (lì eravamo nel nord-est, qui nel deserto del Mojave, ma non cambia poi molto).
Eppure questo non renderebbe veramente giustizia a Mandy, che – totalmente indifferente al senso del ridicolo – impressiona per il modo in cui riesce a fondere in modi che raramente ho visto al cinema suoni e immagini, intenzioni e perfino colori. Merito anche del compositore islandese Jóhann Jóhannsson, scomparso prima della pubblicazione della colonna sonora e a cui il film è dedicato; ricordato per i suoi lavori con Denis Villeneuve (Arrival, Sicario, Prisoners) e per il Golden Globe per The Theory Of Everything, il Nostro regala a Cosmatos quaranta minuti di musica che oscilla tra epica solennità, dilatazioni psicotrope e lacerazioni drone metal che faranno la felicità dei fan dei Sunn O))).
Esattamente come per il film cui danno un suono, bisogna abbandonare ogni inibizione o preconcetto – che titoli come Forging The Beast, Horns Of Abraxas, Death Ashes, Seeker Of The Serpent’s Eye o Children Of The New Dawn sembrano fatti apposta per stuzzicare. Saltato lo squalo e affondate le mani nelle viscere di Mandy, sarà difficile dimenticare di averlo fatto.