A Ghost Story, un’elegia del tempo nel cinema

A Ghost Story, un’elegia del tempo nel cinema

Stanco morto

A Ghost Story, recente opera di David Lowery, è un film strano e poco classificabile per Hollywood. Eppure sembra apparentemente iscriversi in alcuni filoni che negli ultimi anni hanno caratterizzato anche il cinema americano, benché d’autore.

Da un lato abbiamo l’idea di una finta storia di fantasmi, dove le apparizioni evanescenti sono pretesti per narrare altro. L’espediente non è nuovo e attinge a tutto quel filone di film e letteratura fantastici che usano la fantascienza o la fantasia come metafora. Ne è un esempio recente, sempre riguardante i fantasmi, Personal Shopper di Olivier Assayas. Laddove, però, Assayas nascondeva il fantasma come metafora della comunicazione, Lowery ribalta questa aspettativa. In A Ghost Story, infatti, il fantasma è il principale e forse unico protagonista ed è il piena vista fin da subito. Se dobbiamo cercare una metafora, questa la troveremo nascosta intorno al fantasma, non nel fantasma stesso.

Similmente, il film di Lowery si inscrive in quella sorta di new wave hollywoodiana che non esprime in maniera scenografica i sentimenti. Non lacrime, né strepiti, ma emozioni trattenute ed inespresse, che si estrinsecano attraverso pochi, significativi, gesti. Anche in questo caso, A Ghost Story si discosta alquanto, lasciando i sentimenti alla prima metà del film, per poi distaccarsene completamente e prendere strade diverse e personalissime.

Come iscrivere, allora, lo strano prodotto di Lowery?

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È innanzitutto un film di estetica. Il regista, infatti (a suo stesso dire), parte da una idea semplice quanto visivamente interessante: portare in scena il fantasma come viene descritto nelle favole e nelle vecchie storie. Un lenzuolo bianco, due buchi per gli occhi, passi strascicati; mancano solo le catene sferraglianti. Si tratta di un’idea esteticamente molto bella, perseguita anche grazie ad una fotografia sublime, fatta di interni in cui sempre è visibile il fantasma, o lembi del suo lenzuolo. Intorno alla sua figura, vengono costruiti gli ambienti ed anche la storia. Non accade, come in altri film all’apparenza simili, che il regista voglia trasmettere un messaggio e quindi usi la metafora del fantasma; in questo caso è lo stesso oggetto-metafora, sul quale viene innestato tutto il discorso, sia della trama che del messaggio. È la metafora che si fa messaggio essa stessa; il significante, significato.

Dietro un’apparente semplicità, si nasconde, inoltre, una discreta difficoltà tecnica. Serve molta più stoffa di un semplice lenzuolo per coprire debitamente un uomo adulto, e i buchi degli occhi vanno tenuti in qualche maniera fissi. I movimenti, poi, per risultare efficaci, devono essere innaturalmente lenti e prolungati, fino all’esasperazione. Serve molta magia per rendere la solidità di un fantasma in un lenzuolo bianco! Ed il fantasma è fortemente solido, ancorato alla terra e materico. Il suo lenzuolo fruscia in giro, tanto che potresti calpestarlo sbadatamente.

Dietro al lenzuolo dicono ci sia Casey Affleck, ma potrebbe esserci chiunque. Chi realmente manovra lo splendido burattino bianco sono una regia accorta ed una fotografia splendida, fatta di inquadrature magnificamente statiche, suddivise spessoin campi ravvicinati e campi medi. I tempi lunghi ed i pianosequenza permettono allo spettatore di indugiare sui dettagli e sugli strati di profondità di ogni singola scena. Anche il formato è del tutto particolare e straniante: il regista sceglie un formato quasi quadrato (1.33:1), con gli angoli smussati. Si tratta di scelte che comportano un rischio, una scommessa, con lo spettatore: campi lunghi ed interminabili scene fisse, dove (poco o) nulla accade ed anche il tempo si ritorce su se stesso.

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Proprio il tempo, infatti, è il centro motore del film. Superati i bulimici dispiaceri della neo vedova Rooney Mara, rimane al fantasma il tempo dell’eternità per riconciliarsi con quei sentimenti che lo hanno condannato a girovagare per la casa a cui era legato in vita. Il film, infatti, si interroga magistralmente sul fluire del tempo, nella vita e al cinema. Sia sulla percezione bergsoniana dello scorrere, che sul rapporto intrinseco e fondamentale fra il tempo ed il cinema come arte. Peculiarità del cinema, infatti, che lo differenzia da ogni altra arte, è quello della unicità di tempo e spazio. Il cinema nasce per essere fruito in un unico momento, il film come luogo temporale, ed in un unico spazio, il cinema inteso come luogo fisico. Questa appartenenza al momento ed allo spazio, non si ravvede in nessun altra arte: la lettura può essere affrontata in tram, così come a letto; un quadro può essere esaltato da un contesto spaziale, ma non è definito da questo; un’opera musicale vive del suo tempo, ma non più del luogo in cui è stata per la prima volta presentata e può essere riprodotta su differenti supporti. Sebbene le tecnologie moderne abbiano portato profondi mutamenti nella fruizione del film, il cinema come arte ancora dovrebbe essere inteso come unità di spazio-tempo.

A Ghost Story mette in scena un fluire del tempo non coincidente col tempo stesso, ma con la percezione del protagonista-fantasma. Mirabile la scena in cui Rooney Mara esce più volte dalla sua stanza e poi dalla casa, ripetendo sempre gli stessi gesti, ma chiaramente in giorni o forse settimane differenti, davanti all’immobile fantasma. Con questa sequenza strepitosa il regista spiega allo spettatore che il tempo del film è un tempo intrinseco, sovrapposto e non necessariamente lineare (tanto da arrivare al loop temporale, sul finale). Laddove Nolan aveva messo i sottotitoli, per spiegare la coincidenza fra tempi differenti all’interno dell’unico tempo cinematografico, Lowery si affida all’immagine pura, senza didascalie e senza (quasi) parole. Dopo l’iniziale smarrimento dello spettatore (così come del fantasma), il tempo segue il suo corso, veloce, alternato, diverso, ma racchiuso nel tempo del cinema.

Il fantasma osserva anche le domande fondamentali, le sfiora, e le lascia a noi “mortali”, senza dare alcuna risposta. Ed è proprio uno dei “mortali” (Will Oldham) a cui viene affidato il compito di narratore del pensiero, in un lungo monologo sulla vita e la morte. Queste cose, però, ormai al fantasma non interessano più. A lui la pazienza infinita, distruttiva e folle dell’eternità. Di mortale rimane solo il legame affettivo col mondo e col tempo, quell’unica causa che gli impedisce di andarsene.

E a noi spettatori osa rimane? Alla fine i fantasmi che osservano un tempo che non ci appartiene scorrere davanti a noi, senza possibilità di interagire, siamo noi. Il tempo è una “raffigurazione” del cinema; il fantasma degli spettatori, che da occhi immobili e cavi osservano lo scorrere di un tempo che non appartiene a loro, ma all’arte del cinema.

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